CONTROVIRUS | Toccare il cuore senza toccare

di GiamPaolo Casella, medico rianimatore Ospedale Niguarda
Barbara Lissoni psicologa Ospedale Niguarda

Il sistema sanitario italiano si trova attualmente ad affrontare un’emergenza sanitaria nazionale (e internazionale) di portata paragonabile, forse, ad alcune pandemie del passato che non tutti gli operatori sanitari hanno vissuto. L’Ospedale Niguarda di Milano è in prima linea nella risposta all’emergenza e in poche settimane i reparti di terapia intensiva sono sovra saturi, tanto da dover destinare altri reparti all’accoglienza di pazienti affetti da Covid 19 rivoluzionando in questo modo l’organizzazione anche di reparti diversi dalla terapia intensiva. L’intero ospedale ha cambiato volto: incontra il nemico impalpabile ed invisibile, lo accoglie e lo gestisce fino alla fine, qualunque sia la fine. La dicotomia vita-morte coinvolge tutti senza tempo per prepararsi, elaborare e congedarsi dall’altro; si aprono continuamente porte per cercare di dare risposta all’emergenza senza avere il tempo di richiuderle. 

Da ormai quasi due mesi la sensazione di liquidità (definizione di Bauman) ci attraversa: “i liquidi non possono preservare la loro forma per troppo tempo, mutano continuamente ed in maniera imprevedibile. La condizione di bisogno implica la necessità di ri-identificazione continua che genera attrazione e dolore. Viviamo nell’incertezza.” Queste definizioni sono sorprendentemente attuali nei reparti e tra gli operatori. 

Il paziente è ricoverato, isolato e “curato” da specialisti “astronauti” per il loro abbigliamento; i parenti sono in quarantena e confinati lontano dai loro cari. Per i reparti non intensivi i cellulari riescono a favorire un contatto diretto dal paziente alla famiglia; nel nostro reparto di terapia intensiva noi fungiamo da filo conduttore tra il paziente sedato e la famiglia isolata. Il medico una volta al giorno racconta l’andamento della giornata clinica, lo psicologo due o più volte alla settimana segue e rinforza il legame minacciato dalla incertezza, dal rischio di morte, dalla precarietà di un sistema “liquido”. I parenti hanno come unico legame con il proprio caro: l’ospedale. Affidano tutto ciò che hanno di più sacro ad un medico mai visto.  “Ci siamo conosciuti ormai 35 anni fa. Mi ha chiesto di sposarlo in un modo strambo. Ed in un modo strambo si è ammalato”: ciascun paziente è la propria storia. “Mia madre si occupa di tutta la contabilità della nostra piccola impresa famigliare: so che quando si sveglierà mi chiederà chi ha pagato le bollette”: ciascun corpo è una persona. “Ho una spada di Damocle sulla testa: da 3 mesi, a causa di un litigio, non ho più visto né sentito mia madre. Vorrei dirle che mi dispiace e che si svegli per favore”: ogni paziente ha una vita da onorare. 

Il passaggio è stato brusco e disorientante anche per noi: dall’epoca delle rianimazioni aperte (dalle 14.00 alle 22.00 pre-Covid) in cui i colloqui con le famiglie avvenivano in uno spazio protetto (la stanza colloqui), vis a vis, in un tempo dedicato con un’equipe multidisciplinare (medico, infermiere e psicologa), al momento della cura con tute “marziane”, doppi guanti, mascherine che levano il fiato, visiere di protezione, in un reparto non accessibile. Molti pazienti sono generalmente in sedazione profonda, scivolano, se va bene, verso un lento risveglio per liberarsi della macchina che respira per loro. Se va bene. Come rendere umana una condizione disumana? A loro, i pazienti risvegliati, siamo riusciti a far sentire le voci ed i messaggi inviati grazie alla tecnologia, a mostrare i volti dei loro cari (Ipad, Whatsapp). Questi pazienti senza voce, con lacrime silenziose ed esauste alzavano un pollice verso l’alto “andrà tutto bene”. Ai parenti di pazienti ancora sedati mandiamo fotografie di volti di chi si cura di loro, di immagini di vita da reparto nel tentativo di mostrare il luogo e le persone che contengono il loro caro “strappato da casa”. 

E quando va male? “Non si può morire così soli” e non lo permettono gli infermieri che,  con una solida professionalità aggiungono quel pizzico di umanità sotto le divise da “astronauti” ed accarezzano nonostante i doppi guanti, non perdono di vista una smorfia nonostante le visiere, tengono la mano del morente nonostante la sedazione profonda fino all’ultimo battito cardiaco. Prelevato (soccorso) da casa, isolato in ospedale, deceduto. La salma viene portata in camera mortuaria senza alcun rito utile ai fini di un ultimo saluto, un’ultima presa in cura e la bara si chiude senza aver visto chi ci fosse. E le disposizioni di sicurezza favoriscono lutti “liquidi”. I parenti vivono da lontano, impotenti ed ingabbiati: “Per favore ditegli che gli vogliamo bene, che siamo lì con lui, che a casa va tutto bene”, “Se potete gli raccontate che il suo regalo (prenotato un mese fa) è arrivato ed è piaciuto tanto”, “Dottoressa lui sente male? Lo vede lei per me?”, “E’ inaccettabile, è stato portato via 20 giorni fa. Andava nell’orto. Amava la montagna. Non posso crederci così”. E grazie al lavoro di “H for Human”, ideato e supportato da Wamba (associazione no profit specializzata in progetti ospedalieri)  negli ultimi 5 anni di formazione permanente nel reparto di terapia intensiva 1 su temi quali “il processo del morire in terapia intensiva”, “ la comunicazione difficile”, “le relazioni efficaci”, oggi i nostri operatori hanno quella marcia in più nella tempesta drammatica che permette di poter prevenire lutti  “complicati”. La preoccupazione oggi va sul presente “precario” e sul futuro “minaccioso” per chi sopravvive: operatori, pazienti e parenti. 

Medici ed infermieri delle rianimazioni, ma anche di altri reparti, si scontrano con un nemico invisibile, impalpabile, ignoto, che non ha ancora cura e soluzione. Il senso di impotenza, di minaccia per sé e per i propri cari, li pervade e mette a confronto sul crinale delicato vita-morte. La morte per la prima volta per molti di noi non è fuori, lontana, ma ci tocca da vicino in ogni attimo ed ovunque: la rivoluzione biomedica ha consentito all’uomo di modificare la storia naturale di molte malattie, fino ad interferire con il processo della morte e con la sua stessa definizione. Il filosofo Umberto Curi sostiene che il paradigma alla base della medicina tradizionale sia ancora “influenzato dal mito della medicina come scienza esatta”, in cui il concetto di limite è visto come ostacolo, ingombro, negatività da superare. Ed ora? Medici ed infermieri vivono il limite, l’impossibilità di curare. Le tecniche supportano ma non risolvono. La strada, in attesa della “cura”, è la possibilità di “prendersi cura” in questa sospensione. L’identità professionale di ciascuno di noi è messa a dura prova. Impauriti ma efficienti, incerti ma solidi, fragili ma tenaci, siamo costretti a tenere insieme la complessità del vivere in questo tempo: il nostro sentire con la professionalità, laddove l’una non deve escludere l’altra. E se “testa e cuore” si separeranno troppo, i disturbi post-traumatici da stress prenderanno il sopravvento. Questa è la sfida che il nostro reparto, grazie ad “h for Human” sta portando avanti con l’attenzione di uno psicologo dedicato in reparto. Si può morire con dignità anche al tempo del Covid con questi operatori. 

“Insegnerò alle mie amiche ballerine a danzare con le ali senza toccarsi. Loro insegneranno ai bambini ad abbracciarsi con le orecchie, a sorridere con le mani, a baciarsi con gli occhi. Sono arti invisibili che parlano di cose magiche: toccano il cuore senza essere toccati” (favola)

Difficile prendersi cura senza riuscire a curare, ma è la sfida che questo tempo ci lancia. 

Difficile toccare il cuore senza toccare, ma è la sfida che questo tempo ci lancia.

di GiamPaolo Casella e Barbara Lissoni