CONTROVIRUS | Nuove ipotesi sul Covid

di Viviana Kasam, presidente di BrainCircle Italia

Tutto il mondo è in attesa di un vaccino per il Covid-19. Arriverà? E in che tempi? Un esperto stimato internazionalmente come il dott. Anthony Fauci, è prudente, almeno per quello che riguarda i tempi: anche se a fine novembre fossero pronte le prime dosi, i tempi di consegna e di inoculazione sono tali che non è possibile prevedere una protezione generalizzata ed efficace prima della fine del 2021. Il vaccino che sembra più vicino al traguardo, tra le centinaia che si studiano in tutto il mondo, è in questo momento quello messo a punto dallo Jenner Institute di Oxford insieme alla IRBM, una farmaceutica italiana di Pomezia Terme.  AstraZeneca, il colosso anglosvedese, ne ha acquisito i diritti di produzione, distribuzione e commercializzazione e, anche se la sperimentazione di Fase 3 non è terminata, ha già cominciato a produrlo. C’è stato un momento di panico la settimana scorsa, quando un volontario ha presentato sintomi che potevano essere attribuiti a una reazione avversa, e la sperimentazione è stata sospesa. Solo per tre giorni: è infatti stato subito appurato che il vaccino non c’entrava niente. Contemporaneamente,  si stanno intensificando in tutto il mondo le ricerche per un farmaco efficace.

In Ticino è partita una sperimentazione clinica sull’Enzalutamide, un antiormonale utilizzato nella terapia del cancro alla prostata. Attraverso il blocco del recettore androgenico che regola uno degli importanti accessi al virus, impedirebbe al  Sars-Cov-2 di replicarsi. Senza addentraci in spiegazioni scientifiche complesse, questo spiegherebbe perché la malattia , ha un decorso molto più grave fra gli uomini soprattutto over 65, che spesso hanno problemi alla prostata. La squadra ticinese che lavora su questo studio clinico unisce le forze dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana (Iosi) in collaborazione con l’Irb (Istituto di ricerca in biomedcina), lo IOR (Institute of Oncology Research), l’Ordine dei medici ticinesi e del Cardiocentro di Lugano, con il sostegno dell’ente ospedaliero cantonale. Insomma una importante task force che, lavorando su un farmaco già in commercio, non avrebbe bisogno, in caso di risposta positiva, di tempi lunghi per l’approvazione della terapia. Ma la cura interesserebbe solo la popolazione maschile e anziana, che è quella più a rischio, non sarebbe una risposta per tutti.

Un’altra interessante novità viene  da uno studio davvero all’avanguardia per quello che riguarda la metodologia.  Pubblicato sulla rivista eLife, fornisce una spiegazione alternativa sui meccanismi di azione del virus e quindi sulle possibili terapie. I ricercatori infatti hanno utilizzato il supercomputer Summit dell’Oak Ridge National Lab nel Tennessee, il secondo computer più veloce al mondo, facendogli analizzare i dati di espressione genica (i.e. che segmenti di DNA vengono letti o trascritti in RNA e quindi in proteine cellulari) raccolti attraverso il liquido di lavaggio dei bronchi di un gran numero di pazienti che avevano contratto il COVID19. I trascritti o segmenti di RNA estratti da queste cellule bronchiali sono stati confrontati con una libreria di trascrittoma umano (circa 160.000 trascritti diversi) nel tentativo di comprendere meglio che cosa il Covid-19 modifichi cellule infettate. Grazie al supercomputer sono riusciti ad analizzare 2,5 miliardi di combinazioni – in poco più di una settimana. I risultati sono estremamente interessanti.
Come ormai è noto a tutti, il Covid-19 non colpisce solo i polmoni, ma crea una vasta gamma di patologie, alcune anche neurologiche, che sono state attribuite a una forte reazione autoimmune indotta dal virus, e precisamente a una tempesta di interleuchine, prodotte in sovrannumero dal sistema immunitario, che finiscono per danneggiare l’organismo, soprattutto nelle persone più deboli.

Secondo prof.Daniel Jacobson che ha guidato lo studio di cui stiamo parlando, i danni organici sarebbe invece dovuti alla bradichinina, una piccola molecola di segnale che, come sostiene il capo del centro per la biologia dei sistemi computazionali a Oak Ridge, spiegherebbe molti aspetti clinici dell’infezione da  Covid-19, inclusi alcuni dei suoi sintomi più bizzarri, come il gonfiore alle dita dei piedi, la perdita di gusto e olfatto, e la minore incidenza della malattia sulle donne, fornendo una teoria unificata su come la malattia si sviluppa una volta che il virus entra nel corpo umano.

Si sa che il Covid 19 entra nel corpo attraverso i recettori per l’angiotensina ACE2, situati su molte cellule del nostro organismo, comprese quelle delle muscose delle vie respiratorie. Il virus quindi si fa strada nel corpo, penetrando nelle cellule degli organi in cui sono presente i recettori ACE2: intestino, reni e cuore. Questo probabilmente spiega almeno alcuni dei sintomi cardiaci e gastrointestinali della malattia. Ma, secondo i dati emersi dal supercomputer, non si accontenterebbe di infettare le cellule che esprimono già molti recettori ACE2. Indurrebbe anche l’organismo a sovraregolare i recettori ACE2 in luoghi in cui sono solitamente espressi a livelli bassi o medi, compresi i polmoni.

Secondo una metafora efficace, Covid-19 è come un ladro che si infila nella fessura di una finestra chiusa male, e inizia a saccheggiare la casa. Ma non si limita a prendere tutto ciò che è a portata di mano, spalanca anche tutte le tue porte e finestre in modo che i suoi complici possano precipitarsi dentro e saccheggiare in modo più efficiente.

Agire sui recettori ACE2 vuol dire interferire con il sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA), che regola tra l’altro la pressione sanguigna, controllando molti aspetti del sistema circolatorio, compresi i livelli corporei della bradichinina, un mediatore infiammatorio che altera la permeabilità vascolare e produce vasodilatazione. Secondo l’analisi del team, il virus agisce sul controllo genico di questi fattori, mettendo il tilt i meccanismi del corpo per la regolazione della bradichinina. Il suo aumenta, i suoi recettori vengono resi più sensibili e il corpo smette anche di scomporla efficacemente. 
Il risultato finale, dicono i ricercatori, è quello di indurre una tempesta bradichininica, con ipotensione, e aumento della permeabilità vascolare in molti distretti corporei, con danni facilmente intuibili. 
L’ipotesi della bradichinina spiegherebbe anche a molti degli effetti del Covid-19 sul cuore e sulla circolazione. Circa un paziente su cinque ospedalizzato con Covid-19 presenta danni al cuore, anche se non ha mai avuto problemi cardiaci prima. Alcuni di questi sono probabilmente dovuti al virus, che infetta il cuore direttamente attraverso i suoi recettori ACE2. Ma il SRAA controlla anche gli aspetti delle contrazioni cardiache e della pressione sanguigna. Secondo i ricercatori, le tempeste di bradichinina potrebbero creare aritmie e abbassamento della pressione sanguigna, che sono spesso osservate nei pazienti con Covid-19.

Insomma, il virus agirebbe some un ACE inibitore naturale, causando gli stessi effetti che talvolta i pazienti ipertesi denunciano quando assumono farmaci per abbassare la pressione sanguigna. Gli ACE-inibitori sono noti per causare tosse secca e affaticamento, due sintomi da manuale di Covid-19, e possono far aumentare i livelli di potassio nel sangue, che è stato osservato anche nei pazienti con Covid-19. Sono noti anche per causare una perdita del gusto e dell’olfatto. Jacobson sottolinea, tuttavia, che questo sintomo è più probabilmente dovuto al virus “che colpisce le cellule che circondano le cellule nervose olfattive” piuttosto che agli effetti diretti della bradichinina.

Inoltre la tempesta di bradichinine potrebbe aumentare la permeabilità della barriera ematoencefalica creando i sintomi neurologici spesso presenti come conseguenza della malattia, che, dice il prof. Jacobson “sono stati osservati in altre malattie che derivano da un eccesso di bradichinina “.

La ricerca è interessante non solo a livello teorico, per spiegare meglio la genesi dei sintomi e dare una spiegazione unificata anche di quelli (come le contusioni sulle dita dei piedi) che a prima vista sembrano casuali.  Il vero interesse è clinico. Per la tempesta di bradichinine esistono infatti sul mercato diversi farmaci già approvati dalla FDA per il trattamento di altre condizioni. Potrebbero essere applicati anche al trattamento del Covid-19 senza necessitare di lunghe sperimentazioni e passaggi burocratici, se l’ipotesi del prof. Jacobson fosse confermata da altri studi.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | La sfida neuroetica della pandemia

Alberto Carrara
Direttore del Gruppo di Neurobioetica
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum 
Università Europea di Roma
Cattedra UNESCO in Bioetica e Diritti Umani

Non sottovalutiamo gli effetti neurologici e neuropsichiatrici indotti da SARS-CoV-2, solo conoscendoli potremmo migliorarli o almeno provarci. Questa è la sintesi di un progetto globale che potremmo denominare NeuroCovid. Di che cosa stiamo parlando?

NeuroCovid ha almeno due prospettive.

  • Da una parte considera l’emergente letteratura circa gli effetti neurologici e neuropsichiatrici che SARS-CoV-2 sarebbe in grado di arrecare in modo diretto dalla sua presenza fisica nell’organismo umano. Sin dagli inizi dell’infezione si era parlato tanto di una possibile “neuroinvasione” come di “neurovirulenza”, termini che rimandano alla capacità di questo nuovo coronavirus di colpire il sistema nervoso. Dal 20 marzo 2020 la Società Italiana di Neurologia (SIN) aveva titolato un suo documento col neologismo “NEUROCOVID” presentando i dati di letteratura che iniziavano a portare alla luce la certezza che questo virus non solo ci toglie il respiro, ma attacca il nostro corpo nel suo complesso. Si potrebbe dire che nessun sistema ne è immune. Oltre a polmoni, reni e fegato, il SARS-CoV-2 manifesta sin dalle prime fasi dell’infezione un particolare “neurotropismo” per i recettori dell’olfatto. Ciò significava una plausibile preferenza per le cellule nervose, come sono questi recettori, inducendo la perdita dell’olfatto – detta tecnicamente anosmia. Lo studio The emerging spectrum of COVID-19 neurology: clinical, radiological and laboratory findings (Ross W. Paterson et al., Brain) pubblicato lo scorso 8 luglio fornisce un dato significativo e allarmante: nei soggetti COVID-19 positivi il 40% presenta almeno una delle problematiche neurologiche correlate. Ma non è tutto. 
  • L’altro lato della medaglia riguarda tutte le modificazioni funzionali e strutturali del nostro sistema nervoso e, in particolare, del nostro cervello, che indirettamente questo nuovo Coronavirus è in grado di indurre: il ventaglio dei fattori stressogeni legati allo stabilirsi di una vera e propria pandemia, quali l’isolamento e la paura e, non ultimi, la crisi economica e la frattura di importanti legami relazionali, tutto ciò può avere serie ripercussioni sull’armonia ed equilibrio del nostro sistema nervoso. Questa seconda prospettiva del progetto “NeuroCovid”, che prende in considerazione gli effetti sul mentale, non è meno importante e rilevante della prima, anzi, le due dovrebbero venir gestite in modo complementare, visto che possono alimentarsi reciprocamente. 

Nell’articolo Neurobiology of COVID-19 (Fotuhi, Majid et al. Journal of Alzheimer’s Disease) la gravità neuropatologica è stata tripartita secondo uno spettro che va dalle lievi, ma invalidanti, condizioni di perdita sensoriale dell’olfatto (anosmia) e del gusto (ageusia), sino alle gravi encefalopatie. Gli autori stratificano gli effetti neurologici – “NeuroCovid staging” – in base allo studio dei meccanismi patofisiologici potenziali e attualmente riportati in letteratura che SARS-CoV-2 è in grado di indurre in sé o attraverso le molteplici e sistemiche reazioni all’interno del nostro organismo, non ultima, la cascata citochinica prodotta dal nostro sistema immunitario in risposta al virus. Viene proposto il seguente schema che gradualmente considera effetti sempre più gravi ed invalidanti:

NeuroCovid fase I: SARS-CoV-2 penetra nell’organismo attraverso le vie aeree e si lega ai recettori ACE2 umani delle cellule epiteliali a livello nasale e dell’apparato gustativo. Il sistema immunitario risponde, ma la risposta citochinica e cellulo-mediata rimane bassa e sotto controllo, il paziente può sviluppare una perdita transitoria dell’olfatto e/o del gusto, ma si riprende dalla lieve sintomatologia senza alcun intervento medico specifico.

NeuroCovid fase II: SARS-CoV-2 scatena un’intensa risposta immunitaria con alte dosi di citochine che aumentano i livelli di ferritina, di proteina C-reattiva e di dimeri-D alla base di fenomeni di iper-coagulazione in grado di produrre coaguli di sangue che in base alla sede possono essere alla base di ictus e trombosi, ma anche vasculiti (infiammazioni dei vasi sanguigni) a livello di nervi e muscoli con possibile necrosi dei tessuti e danni ai nervi cranici, a quelli periferici e alla muscolatura. Già a questo stadio si devono tenere in considerazione possibili danni neuro-muscolari che potranno richiedere interventi di neuro-riabilitazione a medio e lungo termine una volta risolta la fase critica della patologia COVID-19.

NeuroCovid fase III: questo grave stadio si riferisce sostanzialmente a tutto il resto con l’aggiunta della situazione di infiltrazione dei fattori infiammatori, incluso il coronavirus stesso, oltre la barriera emato-encefalica. Il conseguente edema e i danni cerebrali sono alla base di possibili deliri, encefalopatie e/o crisi epilettiche, sino a veri e propri ictus emorragici.

La neurologia e le neuroscienze sono perciò tra le specialità sul fronte d’attacco di questa pandemia e offrono i dati per ulteriori riflessioni interdisciplinari che potranno guidare sia gli interventi clinici, come essere d’ispirazione per lo sviluppo di strategie a medio e lungo termine in grado di prevenire e contenere i possibili danni a livello del nostro sistema nervoso. Su questo fronte che potremmo denominare “genetico o endogeno” dovremmo prepararci a sostenere gli effetti post-infezione che in non pochi soggetti guariti cronicizzano e avranno necessità di accedere a servizi di neuro-riabilitazione. Significativa risulta la conclusione dello studio italiano pubblicato il 22 maggio dall’American Academy of Neurology, Clinical characteristics and outcomes of inpatients with neurologic disease and COVID-19 in Brescia, Lombardy, Italy (Benussi et al. Neurology): i pazienti COVID-19 ricoverati con malattia neurologica, incluso l’ictus, hanno una mortalità in ospedale significativamente più elevata, delirio incidente e disabilità più elevata rispetto ai pazienti senza COVID-19.

L’orizzonte potrebbe essere quello della disabilità.

Mentre a livello globale la pandemia non cede di un millimetro, riflettere su “NeuroCovid” significa costruire quegli strumenti che ci permetteranno di limitare i danni effettivi o potenziali. Le parole chiave sono: prevenzione, contenimento e gestione.

A questa prima prospettiva strettamente neurologica del progetto deve essere integrata a “NeuroCovid” la seconda dimensione non meno importante: quella che potremmo denominare di natura “epigenetica” in grado di aggravare o di scatenare problematiche di natura psichica.

Un’epidemia, e più ancora una pandemia, produce tutta una serie di alterazioni relazionali che incidono sul tessuto sociale, economico e lavorativo, con ripercussioni comportamentali significative. Isolamento, distanziamento, timore, paura, ansia, perdita di lavoro e di famigliari, risultano condizioni di stress che hanno la capacità di rompere l’armonia e l’equilibrio del nostro sistema nervoso. Gli autori dello studio Psychiatric face of COVID-19 (Steardo, Steardo, & Verkhratsky, Translational Psychiatry) mettono in luce, oltre alle alterazioni organiche indotte dal virus, il potenziale negativo a livello mentale di ciò che descrivono come “stress ambientale” causato dal contesto pandemico in grado anch’esso di promuovere l’aggravarsi, ma anche lo stabilirsi, di patologie neuropsichiatriche quali: la depressione maggiore, il disturbo bipolare, psicosi, stati di disordine ossessivo-compulsivo e di disturbo post-traumatico da stress. Significativo risulta l’acuirsi del numero di suicidi nel periodo del lockdown. Queste sequele psichiche della pandemia COVID-19 rappresentano sfide cliniche molto serie che devono venir prese in considerazione per tradursi in approcci terapeutici presenti e futuri. Siamo nelle migliori condizioni tecno-scientifiche e cliniche per poter intervenire.

Le due prospettive del progetto “NeuroCovid” descritte ci fanno prendere atto dell’importanza della sfida neuroetica che ancora pochi considerano a livello mediatico. Una profonda, articolata, informata e sistematica comprensione di quanto descritto costituisce la base per pianificare con efficacia strategie di riduzione dell’impatto dei danni e di potenziamento che aiutino nel presente e nel futuro a prevenire e gestire gli effetti neurologici post-infezione evitando possibili situazioni di disabilità.

di Alberto Carrara

CONTROVIRUS | Ripartire dall’intelligenza delle donne

di Viviana Kasam, presidente BrainCircle Italia

Le donne sono state escluse dalle task force per la ricostruzione post-Covid?

Senza lamentarsi pubblicamente, senza inviare petizioni, senza rilasciare interviste polemiche, le due più note scienziate italiane, Ilaria Capua, direttrice del One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, e Fabiola Gianotti, direttrice generale del Cern di Ginevra hanno deciso di crearselo da sé un comitato prestigioso e autorevole, scegliendo fior da fiore le migliori esperte internazionali – ma nel gruppo c’è anche un 30% di uomini: “guardiamo alla competenza, non al genere” spiega Capua. E in questa fase le competenze prioritarie sono l’ottica e l’esperienza femminile fatta di buon senso, partecipazione, interconnessione, pragmatismo: fattori fondamentali per trovare soluzioni innovative.

L’hanno battezzato Yellow Submarine, il loro progetto, con l’ironia e la leggerezza che è la cifra delle donne intelligenti. “Durante il Covid ci siamo sentite come dentro un sottomarino, ci incontravamo su Zoom, strette in una stanza virtuale, parlando lingue differenti e analizzando i problemi da prospettive diverse” ha raccontato Ilaria Capua a Giulia Belardelli del Huffington Post.

Yellow Submarine parte da un’idea pragmatica ma innovativa. Quella di “fotografare” il virus in tutte le sue manifestazioni per comprenderne il meccanismo d’azione, prima di proporre soluzioni che, al momento, non possono essere basate sulle conoscenze concrete, che sono troppo frammentarie e scoordinate. E dunque, raccogliere, standardizzare e analizzare le montagne di dati generati in tutto il mondo durante la pandemia, con la straordinaria potenza di calcolo del Cern, che ha messo a disposizione la piattaforma Zenobo, un archivio open access al cui interno verrà sviluppata un’area dedicata al Covid. Qui sarà possibile caricare vari tipi di dati: sia quelli raccolti in modo specifico da ospedali, istituzioni e persone, sia quelli raccolti con altre finalità, per esempio relativi a inquinamento, piogge, mobilità, per correlare i tracciamenti ai dati epidemiologici.

“Ma in questo mare di dati si rischia di annegare, soprattutto perché non sono stati definiti degli standard condivisi per il rilevamento” spiega Antonietta Mira, direttore del laboratorio di Data Science dell’Università della Svizzera italiana e professore di statistica all’Università dell’Insubria, coinvolta nel progetto Yellow Submarine. “Per esempio, i protocolli di somministrazione dei tamponi e il conteggio dei positivi varia da Paese a Paese e persino da ospedale a ospedale, e quindi i risultati non sono confrontabili; i decessi per Covid non sempre sono stati distinti dai decessi con Covid e ci sono distorsioni legate ai tempi di raccolta dei dati”. Insomma, la foto è sfocata: milioni di pixel ma non armonizzati.

Come arrivare a una immagine nitida e ben definita? Cinque le linee di ricerca stabilite con l’obiettivo di affrontare future crisi sanitarie con conoscenza di causa. 1. Cambiamento climatico e rapporto tra inquinamento e diffusione del Covid. 2. Natura e resilienza, ovvero come la natura ha reagito al lockdown – lo abbiamo visto tutti, i mari di nuovo azzurri, i delfini nei porti, il cielo pulito, persino le lucciole a Roma. 3. Le differenze di genere – perché la malattia ha colpito uomini e donne con percentuali e manifestazioni diverse (finalmente se ne parla: la medicina di precisione e in particolare la medicina di genere è la bussola verso il futuro); 4. Sorveglianza degli animali sia per il loro ruolo nella diffusione del virus sia come possibili alleati e sentinelle delle malattie; 5. il ruolo della vaccinazione antinfluenzale nel decorso dei pazienti che l’avevano fatta rispetto ai non vaccinati – un altro indizio importante di cui poco si è sentito parlare.

Del team fanno parte esperte ed esperti in matematica, fisica, economia, statistica, ingegneria, medicina, veterinaria, agronomia, climatologia: è un gruppo molto eterogeneo che si è creato spontaneamente, perché il Covid-19 sta fungendo da acceleratore di interdisciplinarietà. È la fine della scienza settoriale e si sta tornando finalmente a una visione leonardesca della conoscenza, che è umanistica e scientifica insieme, tiene conto non solo della persona nella sua interezza psicofisica, ma anche dell’ambiente e delle sue interazioni con l’umanità. Il Covid, come ho già scritto su queste pagine, è stato un hacker, che ha scardinato il sistema per mostrarne le debolezze e non si può ricostruire senza tenerne conto.

Yellow Submarine è un progetto rivoluzionario perché inserisce in un problema soprattutto sanitario la capacità computazionale, ovvero l’organizzazione e la strutturazione dei dati.

Un’altra novità è che sia il gruppo che la piattaforma di lavoro sono open, ovvero chiunque può collaborare, a differenza dei comitati chiusi sui quali si appoggiano le istituzioni. Finalmente una modalità da Terzo Millennio, a rete, orizzontale e non gestita dall’alto: la modernità tecnologica e intelligente contro i vecchi sistemi che hanno prodotto il degrado che ha aperto la strada al Covid, lo sguardo femminile dell’interdipendenza contro il culto maschile della piramide.

È una visione aperta a tutte le componenti positive della società. Il gruppo, per fare un esempio, sta predisponendo un progetto con Ilaria Borletti Buitoni e il Fondo Ambiente Italiano, per studiare in alcune proprietà del Fai come la natura si stia risvegliando proprio grazie alla diminuzione dell’inquinamento. Insetti, piante, animali selvatici possono essere indicatori preziosi, se si è consapevoli del ruolo che l’ambiente gioca sul benessere e sulla salute e anche sul sistema immunitario, che è la prima barriera contro i virus. Interdipendenza, potrebbe essere la parola chiave del progetto Yellow Submarine: dell’umanità con la natura, con le foreste che stiamo distruggendo, con gli animali selvatici che privati del loro habitat naturale vengono in contatto con noi diffondendo nuove malattie, dei mari che sono la fonte della nostra vita e che invece di amare e rispettare utilizziamo come discariche.

L’obiettivo delle scienziate non è quello di fornire una ricetta universale per risolvere i problemi sanitari, economici e sociali causati dal Covid. Ma di mettere a disposizione dati strutturati e modelli per analizzarli, che consentano via via di elaborare nuove soluzioni basate su informazioni reali e conoscenze interdisciplinari, non su supposizioni. Ilaria Capua lo chiama un “progetto trasformazionale”, flessibile, perché continuerà a cambiare mano a mano che nuovi dati si renderanno disponibili, dalla fase 2 e forse dalla 3 e poi ancora dalle successive. Perché la soluzione non può essere statica, ma deve adattarsi al decorso della pandemia, alle incognite che ancora presenta e anche alle caratteristiche territoriali, climatiche e genetiche degli individui. Seguendo una nuova logica, quella che lo scrittore Alessandro Baricco definisce tipica dei giocatori di videogames, abituati a provare diverse strategie e pronti a modificarle in tempo reale nel caso non si dimostrino vincenti.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Un vaccino contro le fake news

Armando Massarenti

Intervista di Viviana Kasam ad Armando Massarenti, filosofo e giornalista, caporedattore al Sole 24 Ore e firma storica del supplemento culturale Domenica.

Ispirato dalla pandemia delle cattive informazioni, stai scrivendo una summa sulle fake news. Con che ottica?

Si tratta di un libro incentrato sulla scienza dei dati, di cui sono coautore con Antonietta Mira, grande esperta di big data, già autrice di modelli matematici efficaci per prevedere l’andamento della diffusione di altri virus, come il “banana bunchy top virus”. Ci siamo sentiti a febbraio, mentre lei stava costituendo un gruppo internazionale di ricerca per mettere a punto, sulla base di quelle esperienze precedenti, un modello previsionale che permettesse di monitorare giorno per giorno i dati del Covid-19 per pubblicare previsioni e analisi attendibili sul giornale in cui lavoro. Sono molto ammirato per l’atteggiamento da lei tenuto. Mantenendo ogni giorno l’attenzione critica su ciò che accadeva, ha toccato con mano la difficoltà di mettere a punto compiutamente il modello desiderato. Nelle sue prese di posizione pubbliche, intervistata per esempio dalla televisione svizzera, Antonietta ha saputo fornire e commentare dati molto interessanti, sottolineando però che la pandemia da coronavirus è accompagnata da una pandemia da coronadati da cui pure è necessario vaccinarci al più presto. Dalle nostre conversazioni su questo suo modo, così corretto da parte di una scienziata, di fornire problematicamente le informazioni, attento come è anche a ciò su cui è meglio tacere perché sbagliato e fuorviante, è nata l’idea di fare un libro insieme. Perché, abbiamo pensato, è proprio attraverso l’analisi degli errori, delle fallacie e delle confusioni più comuni che forse è possibile scrivere un vero manuale, efficace e magari anche piuttosto divertente: una sorta di manuale al contrario, su come ragionare bene e evitare di prendere abbagli. Abbiamo deciso di intitolarlo La pandemia da coronadati. Ecco il vaccino perché l’intento è quello di aiutare i lettori a non infettarsi di bugie.

Fake news e bugie: per te sono la stessa cosa?

Certo, le fake news, che altro non sono che le vecchie “bugie” presentate con nuove e svariate tecniche. Un classico best seller, vero capolavoro della divulgazione scientifica, non a caso si intitolava How to lie with statistics. Uscì nel 1954 e riportava la battuta, attribuita a Disraeli, secondo cui «Ci sono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie spudorate e le statistiche». 

Davvero le bugie possono essere divise in tre categorie ma diverse da quelle di Disreaeli.  Distinguerle è un facile esercizio che può essere utile per capire bene, in ogni momento, a che cosa siamo davvero sottoposti. 

Le bugie bianche sono quelle dette a fin di bene a una persona che ci ascolta e alla quale la verità potrebbe procurare un danno. Sono dunque altruistiche, al contrario delle bugie nere che sono pronunciate per fini esclusivamente egoistici. Le bugie blu sono invece quelle falsità dette a nome di una categoria di persone allo scopo di rafforzare i legami del gruppo. Non sono egoistiche perché dette a vantaggio del gruppo, che si rafforza al cospetto del nemico. Vengono pronunciate per smania di esibizione e per provocare irritazione nel proprio avversario. Sono segnali inequivocabili ed efficacissimi per consolidare la propria leadership e la solidarietà con i propri simili, o meglio con la propria tribù di riferimento. E quanto più sono assurde, tanto più raggiungono lo scopo.

Dunque Trump sarebbe un bugiardo blu?

Nel 2016, durante la sua campagna presidenziale, l’esplosione delle fake news ebbe un picco senza precedenti. Editorialisti e osservatori politici di tutto il mondo, di destra, di sinistra o di centro, non si capacitavano come potessero davvero attecchire sull’opinione pubblica notizie strampalate e incoerenti. Come quella secondo cui l’11 settembre 2001 Barak Obama doveva avere avuto un ruolo nell’attentato alle Torri gemelle “perché in quel periodo non era mai alla Casa Bianca!”, ma è ovvio, allora non era ancora presidente. O quella secondo cui la candidata rivale Hillary Clinton fosse affetta da sclerosi multipla e facesse apparire in pubblico una sua controfigura. E invece dovettero prendere atto della loro efficacia nel determinare la inaspettata vittoria di Trump. Che cos’era successo? Il mondo era diventato improvvisamente del tutto irrazionale? Che cosa spingeva molti elettori a credere – o a credere di credere – a quelle assurdità complottiste? Perché sono risultati inefficaci tutti i media, che pure si impegnarono a smentire quelle notizie? La spiegazione deve tener conto degli istinti tribali presenti in ognuno di noi. Come ci spiegano da decenni antropologi, biologi e scienziati cognitivi i nostri cervelli conservano la memoria di quando eravamo cacciatori-raccoglitori. Ai valori astratti, civili, che informano le civiltà moderne, basate sul rispetto universale delle legge, sull’eguaglianza formale di tutti i cittadini, lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il libero mercato, il metodo scientifico ecc. preferiamo istintivamente gli affetti privati e, per dirla in breve, il familismo amorale di cui peraltro noi italiani siamo considerati campioni. Per dire come Aristotele, “sono amico di Platone ma sono più amico della verità” bisogna fare molta più strada, in senso culturale, di quanto si pensi. Le sirene del tribalismo sono oggi più che mai accese, e la nostra civiltà, conquistata a fatica e da cui deriviamo un benessere mai provato prima dall’umanità, è più fragile che mai.

È solo il tribalismo a determinare la propensione a credere alle fake news?

I meccanismi sono molteplici. Come ci insegnano gli scienziati cognitivi ormai da diversi decenni, e prima di loro non pochi filosofi, i nostri cervelli sono portati a cadere in trappole cognitive, fallacie e pseudoargomenti di ogni genere. Alcune sono incorreggibili: per esempio il nostro sistema visivo di fronte al famoso coniglio-papero ci farà sempre vedere o il coniglio o il papero, mai entrambi contemporaneamente. Oppure, due stanghette lunghe uguali ma incorniciate in modo da sembrare una più lunga e una più corta, continueremo a vederle così anche una volta svelato che si tratta di una illusione ottica. Sappiamo che le cose sono diverse da come le vediamo, ma continuiamo comunque a vederle così. 

Alcune di queste dipendono dalla nostra credulità e dalla nostra irrefrenabile tendenza – per dirla con la poetica sgrammaticatura di Vasco Rossi – a “dare un senso a tante cose anche se ‘tante cose’ un senso non ce l’ha”, e a vedere correlazioni anche laddove è assai dubbio che ve ne siano.  Ciò avviene anche con le correlazioni statistiche. In questi nostri tempi difficili, dominati da una delle più gravi pandemie mai affrontate  dall’uomo, forse siamo ancora più vulnerabili

Esiste la possibilità di contrastare questa epidemia di false informazioni? Qual è il vaccino che proponi?

In un mondo dominato dalle fake news alla Trump, dove gli stessi autori e propagatori di bugie spesso pericolose accusano i loro oppositori di fare informazione scorretta, è quantomai necessario formare nelle nostre menti quegli anticorpi che ci permettono di difenderci dall’assalto continuo di notizie false o tendenziose. E la filosofia, da cui nasce la mia formazione, è l’antidoto nel quale credo di più. Per questo cerco di divulgarla attraverso i miei articoli e miei libri, parecchi dei quali rivolti ai bambini, perché è nei primissimi anni di vita che si impara a ragionare criticamente. Il famoso motto cartesiano, penso dunque sono, va reinterpretato nel senso che oggi “siamo” solo se siamo in grado di pensare autonomamente e criticamente. E un ingrediente fondamentale del pensiero critico è proprio la consapevolezza socratica, il “sapere di non sapere”. Potrà sembrare un paradosso, ma oggi il detto socratico rafforza la necessità di una riconquistata fiducia nei confronti degli esperti e dei competenti, dopo anni in cui ha imperversato l’acritico slogan “uno vale uno”.  Per spiegarlo vorrei ricordare un famoso esperimento in psicologia che descrive il cosiddetto effetto Dunning-Kruger, dal nome dei due ricercatori che lo condussero nel 1999.  In breve essi scoprirono che, se mettiamo a confronto un vero esperto con un principiante, in qualunque ambito – per esempio un vero giocatore di scacchi a livello agonistico con un bravo scacchista dilettante che vince sempre con i suoi amici di quartiere – vi è una radicale differenza tra i due nella capacità di autovalutare sé stessi e le proprie competenze.

Le persone più intelligenti e preparate tendono a sottovalutare le proprie reali capacità e conoscenze. Le persone meno preparate invece sopravvalutano se stessi e le loro spesso parziali e mal digerite conoscenze. Dunque il dilettante si valuterà migliore del professionista. Questa spavalda sicurezza di sé può rendere l’ignorante più assertivo, e quindi credibile, dell’esperto. E magari, almeno all’inizio, aiutarlo a vincere.

Quindi gli esperti dovrebbe apparire più sicuri di sé pe convincere la gente?

In alcuni casi l’assertività è indispensabile. Per esempio, per dichiarare con convinzione che le misure suggerite da Trump non vanno assolutamente seguite, come si sono precipitati a raccomandare gli esperti nominati dalla stessa Casa Bianca! Ma lo scienziato non può abdicare al suo ruolo, che è quello di ragionare, non di pronunciare slogan per poi subito contraddirli. Credo che, prendendo esempio da Bill Gates, che non è uno scienziato, ma un uomo geniale e intellettualmente onesto, gli scienziati dovrebbero essere in grado di smarcarsi e mostrare come funziona il meccanismo, come stiamo cercando di fare anche noi con queste riflessioni. Per esempio, spiegare che prendersela con la Cina prima ancora di avere le evidenze necessarie, ha lo scopo di focalizzare l’attenzione su un capro espiatorio per distogliere l’attenzione dai problemi reali e dagli errori commessi in prima persona. È necessario, quando si presenta sulla scena un nuovo impostore smascherarlo subito per quello che è: un ciarlatano. Senza paura di non essere politically correct. Ed evitare, in omaggio a un malinteso valore come il pluralismo delle opinioni, di organizzare confronti mediatici tra il ciarlatano di turno e un vero scienziato. Così non si fa altro che accreditare il ciarlatano mettendolo nelle condizioni di fare tutto il male possibile.

Se, come per un farmaco, tu dovessi darci la formula per evitare di infettarci di fake news, quale sarebbe?

Il fact checking sui siti di debunking è importante, fondamentale. Ma attenti a non perdere tempo a controllare miriadi di fatti irrilevanti. Questo è molto spesso lo scopo dei grandi mentitori, che in questo somigliano agli illusionisti: sviare l’attenzione da ciò che è vero e importante, e che magari  sta proprio lì, semplice e visibile a tutti, sotto il nostro naso. 

Armando Masarenti è membro della Commissione per l’Etica della Ricerca e la Bioetica del Cnr (ente presso il quale è ricercatore associato), e dei comitati scientifici del Cepell (Centro per il Libro e la Lettura) e del costituendo Museo educativo sulla moneta e l’economia di Banca d’Italia. Dirige per Mondadori Università la collana Scienza e filosofia. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Metti l’amore sopra ogni cosa (Mondadori 2017), Istruzioni per rendersi felici (Guanda 2014), la serie di libri di filosofia per bambini Gli inventori del pensiero (La Spiga, 2019) e, con Paolo Legrenzi, La buona logica. Imparare a pensare e L’economia nella mente (Cortina, 2015 e 2016). Con il Lancio del nano (Guanda, 2006) ha vinto il prestigioso Premio filosofico Castiglioncello 2007. 

di Viviana Kasam e Antonio Massarenti

CONTROVIRUS | Essere ottimisti

Viviana Kasam,
Presidente BrainCircle Italia

Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. La celebre frase di Gramsci mi sembra quanto mai pertinente a questo difficile momento in cui si sta avviando un po’ ovunque la fase di riapertura dopo il lockdown, in assenza di ogni certezza scientifica e, a livello mondiale, di figure che sappiano infondere capacità di sacrificio e fiducia. Penso con nostalgia a Churchill e al suo straordinario discorso all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il 3 maggio 1940. “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Voi domandate, qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una sola parola: la vittoria. La vittoria a tutti i costi. La vittoria nonostante tutto il terrore. La vittoria, per quanto lunga e difficile la strada possa essere, perché senza la vittoria non c’è sopravvivenza”. Che differenza con i politici di oggi che, ovunque, cercano di rassicurare senza avere nessuna strategia, e proprio per questo accrescono l’incertezza e lo sconforto. Che non sanno chiedere sacrifici, ma cercano di tenere la gente tranquilla con promesse che non potranno realizzare. E invece di stilare progetti coraggiosi consultano i sondaggi d’opinione.

Per la pandemia da Covid 19 i paragoni bellici sono stati abusati. Ma la verità è che ci troviamo davanti a un nemico insidioso che ci spiazza perché non riusciamo a definirne con precisione l’identità e a prevederne i comportamenti, un alieno che sfugge alla nostra esperienza e ai nostri schemi. È ovvio quindi che la nostra ragione dipinga scenari da incubo. Ma qui deve subentrare l’ottimismo della volontà. Che non è un ottimismo stupido, l’andrà tutto bene, l’attesa della bacchetta magica. È un ottimismo che si deve basare sulla fiducia nella scienza, nell’assunzione di responsabilità individuale e nel rafforzamento delle strutture sanitarie sul territorio per la prevenzione, l’assistenza domiciliare e i ricoveri in ambienti non patogeni, quali purtroppo sono diventati molti ospedali oggi.

È vero, sul coronavirus sappiamo ancora poco. Non abbiamo diagnosi certe, né cure internazionalmente avallate. Il vaccino, nel migliore dei casi, è lontano parecchi mesi. La malattia stessa ci sfugge: è solo respiratoria/polmonare? Cardiovascolare? Immunitaria? Sistemica? Crea immunizzazione o, come per l’influenza, si possono avere ricadute anche a breve distanza di tempo? E i bambini, che generalmente sono asintomatici, sono comunque portatori del virus e devono essere tenuti isolati, oppure, come sostengono alcuni, non rappresentano alcun pericolo? Il virus stesso, poi, è stato trasmesso attraverso gli animali, o è stato ingegnerizzato, come ogni tanto si sente dire, peraltro senza prove? Si attenuerà, muterà, si ripresenterà? Tutte domande senza risposta. Ma se non vogliamo cadere in una pandemia ancora più grave, quella socioeconomica, e rischiare una colossale depressione, come quella del 1929, dobbiamo aver il coraggio di ricominciare, a piccoli passi, mettendo un piede avanti solo quando l’altro è al sicuro. È questo che vorremmo sentire dire dai nostri politici, e ci sta anche l’incertezza delle misure da prendere, perché nessuno ha la sfera di cristallo, le opinioni sono contrastanti e bisogna navigare a vista in una tempesta che non sappiamo quanto durerà e come si svilupperà. E qui diventa fondamentale il rapporto tra politici e scienziati, che si era incrinato negli ultimi anni sotto il fuoco di un insano populismo mediatico che metteva sullo stesso piano premi Nobel e influencer senz’arte né parte.

Ma guardiamo alla metà piena del bicchiere. Mentre in passato ci volevano anni, se non decenni, per isolare un virus, questo lo abbiamo sequenziato in due settimane. Attraverso il lockdown siamo riusciti a contenerlo, dopo il picco delle prime settimane. Ci sono almeno tre protocolli terapeutici diversi che sembrano dare risultati positivi e vengono oggi testati in tutto il mondo. E sette laboratori paiono in dirittura d’arrivo nella messa a punto di un vaccino, anche se i tempi tecnici per la sperimentazione umana sono necessariamente lunghi, perché non si può rischiare di iniettare sulla popolazione sana un vaccino senza essere sicuri che sia innocuo. Si sta sperimentando in vari Pesi, tra cui la Svizzera, la plasmaferesi, ovvero il trasferimento ai malati gravi del plasma di persone guarite e con un alto livello di immunoglobuline IGG. E si stanno approntando in tutto il mondo esami rapidi ed economici, di facile produzione, per individuare le persone infette, da un lato, e quelle immuni, dall’altro. Una epidemia come il Covid 19 in passato avrebbe fatto milioni di morti. Grazie alle conquiste scientifiche e tecnologiche, alle dolorose misure prese, e al senso di responsabilità della maggior parte dei cittadini in tutto il mondo, contagio e morti sono stati contenuti.

Ora si tratta di capire non solo come riprendere, ma anche a quale modello di sviluppo aspiriamo. In primis, sanitario. Questa pandemia da coronavirus non è la prima e soprattutto non sarà l’ultima.

Gli scienziati da anni, se non decenni, avevano avvertito dell’approssimarsi di una pandemia virale e della necessità di rafforzare le strutture sanitarie territoriali. “Nel 2017 uno dei maggiori virologi, l’americano Ralph S. Baric, alla domanda circa il pericolo di una pandemia catastrofica, ammonì che la prima barriera preventiva sono le infrastrutture di sanità pubblica: maggiore igiene, strutture mediche più efficienti e un sistema di assistenza in grado di attivarsi velocemente” ha dichiarato in una intervista a Il Domani d’Italia Arnaldo Benini, una delle più illustri personalità scientifiche in Svizzera. “Parole al vento. Si sono ridotti, anche drasticamente, in Italia e altrove i fondi per la ricerca e la sanità pubblica. Gli ospedali e l’assistenza medica nel paese più ricco e potente del mondo sono – dice il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo – disastrosi. Gli Stati Uniti sono ora il fulcro della pandemia”.

Dunque, una delle prime priorità deve essere quella di investire sul sistema sanitario, sui medici e i paramedici che abbiamo incensato come eroi ma presto saranno dimenticati, mettendo a punto un progetto di ampio respiro che tenga conto anche degli sviluppi della telemedicina.

Il secondo punto è quello della responsabilizzazione individuale. La guerra al Covid la si vince solo se ognuno è pronto a sacrifici, in primis quello della libertà di movimento. Pensare a un controllo sociale attraverso le telecamere a riconoscimento facciale, le app di tracciamento, la polizia e i servizi segreti, significa mettere le basi di una società che abdica al proprio ruolo morale e una regressione collettiva allo stato infantile. Certo, il tracciamento digitale sicuramente può essere utile, ma pone moltissimi problemi etici e pratici. Serve solo se è utilizzato dalla maggioranza della popolazione, se è implementato dalla capacità di fare esami, tamponi e dare assistenza a tutti i contatti di ogni infettato, e se c’è chi poi dà seguito alle informazioni ricevute dalla App. C’è poi il problema di quale tecnologia sia meglio utilizzare (gps o bluetooth), di come garantire l’anonimato, e di chi detiene i dati. Siamo il Paese in cui ogni giorno informazioni riservate e registrazioni coperte da segreto istruttorio arrivano sulle prime pagine dei giornali. È vero, i nostri dati già li maneggiano, senza il nostro consenso e senza che ne siamo consapevoli, i grandi colossi del digitale. Ma non sono, almeno per ora, il potere politico. C’è chi suggerisce che le informazioni possano rimanere nella memoria dei singoli smartphone ed essere scaricati solo in caso di necessità e in modo anonimo. Personalmente mi sembrerebbe più ragionevole, ma rimane la questione di fondo: l’occhio che controlla dall’alto, non finisce per deresponsabilizzare i cittadini e per acuire il piacere della trasgressione? Invece che nebulose normative e la creazione di una società di automi controllati dal Grande Fratello, non sarebbe più utile dare chiare indicazioni sui comportamenti da adottare per sconfiggere il virus, dando fiducia ai cittadini e alla loro capacità di controllo sociale, come avviene in Svizzera e nei Paesi del Nord, ma anche nella mediterraneissima Grecia? Perché i nostri politici ci trattano come bambini dell’asilo invece che stimolare il nostro orgoglio di adulti responsabili? Gli italiani sono un popolo di individualisti e opportunisti è vero, ma che hanno saputo ricostruire il Paese dopo la guerra con grandi sacrifici e ottenere una eccellenza riconosciuta nel mondo. Non sarebbe giusto che qualcuno ce lo ricordasse? O forse mantenerci allo stadio infantile è strumentale per creare una società di individui manipolabili, premessa di ogni regime autoritario.

E infine una considerazione di carattere generale. In questo momento, come ha scritto anche lo storico Yuval Harari, diventato il guru della coscienza mondiale, dobbiamo prendere decisioni fondamentali per il nostro futuro, o meglio, per il futuro del pianeta. Il virus, come ha scritto sul nostro sito lo scienziato Massimiliano Sassoli de Bianchi, ha avuto il ruolo di hacker scardinando il sistema per dimostrarne la debolezza. L’inquinamento, che indebolisce il sistema respiratorio e la deforestazione, che priva gli animali selvatici del loro habitat, sono due fattori fondamentali nella diffusione del virus. Ma non solo: abbiamo sconvolto ecosistemi remoti e antichi di millenni, abbiamo consumato le riserve del pianeta, distrutto aria e mari con rifiuti e inquinamento, eroso i ghiacciai, snaturato le culture tradizionali con il turismo di massa. “L’alterazione violenta degli ambienti – cito nuovamente il professor Benini – è una delle cause delle mutazioni degli agenti patogeni e quindi delle epidemie e pandemie. L’aumento enorme della popolazione, ammassata in città di dimensioni che facilitano contagi e inquinamento, l’aumento della temperatura, la polluzione che altera e indebolisce i polmoni: tutto ciò e altro ancora hanno portato da anni virologi, epidemiologi, biologi a prevedere un big crash micidiale”.

Il Covid 19 ha azzerato tutto per due mesi. L’aria è tornata pulita. Le città d’arte hanno ripreso il loro incanto. Nei mari pullulano i pesci e l’acqua, persino a Napoli, è limpida e turchese. Oggi abbiamo la possibilità di decidere che tipo di ripartenza vogliamo. Ricreare il mondo di prima, sull’orlo del suicidio? Vogliamo tornare a una società basata sulla ingordigia di pochi e la povertà di miliardi di persone? Vogliamo continuare a ragionare in termini di profitto invece che di qualità della vita? Purtroppo, sembra che queste domande se le pongano solo pochi inguaribili sognatori, e nei molteplici comitati preposti a disegnare il prossimo futuro, nessuno ne fa cenno. Comitati dai quali peraltro sono state praticamente escluse le donne e anche i giovani. Ma senza di loro, senza varietà di pensiero e di approccio, senza l’esperienza della rete e della solidarietà, che è tipica della cultura femminile e dei nati digitali, il rischio è che invece di morire di Covid l’umanità si estinguerà per la siccità, l’inquinamento, lo spopolamento dei mari, la deforestazione. Non la generazione di quelli che ora tengono le redini. Loro si salveranno. Perché ancora per qualche decennio il mondo andrà avanti – a meno che qualche pazzo non scateni la terza guerra mondiale. Quelli che ne soffriranno le conseguenze saranno i nostri figli e nipoti, dei quali nessuno sembra preoccuparsi.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Coronavirus e neuroscienze

Alberto Carrara
Membro della Pontificia Accademia per la Vita, Direttore del Gruppo di Neurobioetica (GdN), Ateneo Pontificio Regina Apostolorum , Università Europea di Roma, Cattedra UNESCO in Bioetica e Diritti Umani

Si è sentito parlare spesso in queste ultime settimana di Coronavirus e degli effetti sul cervello. In effetti, il tropismo neurale di questo virus (il SARS-Cov-2) è un tema emergente ed estremamente importante da tenere in considerazione in questi mesi di lockdown globale.

Da mesi il silenzio, l’isolamento, il deserto delle nostre città, la solitudine dei nostri monumenti sono divenuti la nostra “tempesta” esistenziale. Il silenzio assordante, il senso di vuoto desolante, la paralisi fisica ed emotiva, la paura e lo smarrimento sono alcune tra le percezioni e i sentimenti che non lasciano indifferenti il nostro sistema nervoso. E come non potrebbero? Come tutti questi fattori stressogeni non hanno già effetti sul nostro cervello?

Che il SARS-Cov-2 di per sé abbia effetti neurologici è una evidenza che sta emergendo con sempre più forza e che viene indagata dagli specialisti in tutto il mondo: la rivista Neurology ha indetto una Call specifica sull’argomento e su PubMed alla voce “COVID-19 nervous system” compaiono numerosi studi. A questo proposito mi preme citare la task force Neuro-Covid condotta da Matilde Leonardi, neurologa, pediatra e direttrice del Centro Coma della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano. Già oggi sappiamo che questo virus attacca sin dalle prime fasi di malattia i recettori per l’olfatto, cioè quelle terminazioni nervose deputate a trasmettere l’impulso e il messaggio odorifico dalla periferia dei nostri organi di senso, in particolare del naso e della bocca, sino al cervello.

Ora, se da una parte il coronavirus stesso attacca il sistema nervoso e perciò stesso il cervello, dall’altro lato, numerosi fattori epigenetici stressogeni da isolamento, reclusione, paura, eccetera hanno la capacità di riplasmare in negativo la nostra funzionalità cerebrale.

Nel 1998 il premio Nobel per la Medicina Eric Richard Kandel (1929-) nel suo articolo A New Intellectual Framework for Psychiatry – pietra miliare per una visione unitiva della persona umana – forniva 5 grandi principi per una psichiatria biologica. Kandel metteva in relazione la stretta interrelazione dinamica tra fattori genetici ed epigenetici nella genesi della malattia mentale.

Con questi presupposti e con le evidenze neuroscientifiche odierne, possiamo affermare che la complessità della situazione di pandemia in cui ci troviamo stia già riplasmando i nostri cervelli.

I numerosi elementi esistenziali negativi: l’isolamento, la paura, la perdita del lavoro, i timori del rischio del contagio, per non parlare del distanziamento forzato da parenti e amici ricoverati e persino moribondi, i lutti vissuti a distanza, eccetera, tutto questo sta concorrendo a produrre alterazioni, in primo luogo, a livello di espressione genica cerebrale, che si riverberano nella modulazione negativa di diversi neurotrasmettitori (tra cui i sistemi dopaminergici, serotoninergici, e altri), sino a vere e proprie modificazioni della connettività neuronale. Se protratte nel tempo, tali alterazioni indotte da fattori stressogeni possono persino essere riconosciute a livello di indagine attraverso EEG (elettroencefalografia) e altre neuro-tecnologie, attraverso variazioni della connettività corticale. Queste evidenze costituiscono le basi per l’insorgenza di sindromi psichiatriche complesse come ad esempio il PTSD, il disturbo post-traumatico da stress.

Come invertire la rotta di queste fratture al nostro cervello? Gli stessi meccanismi che strutturano negativamente il nostro cervello possono essere sfruttati sia per prevenire l’insorgenza di danni funzionali che poi possono tradursi in veri e propri scompensi, sia possono servire per ri-configurare in senso positivo il nostro sistema nervoso debilitato o già squilibrato.

Oggigiorno siamo chiamati a reinventare le nostre relazioni e a scoprire le nostre deep skills, quelle relative alla nostra capacità empatica, al saper stare con gli altri, all’ascolto, alla solidarietà, ma pure alla moralità e alla responsabilità. Queste strategie positive avranno effetti positivi sulla nostra percezione della malattia e sul suo decorso e, di conseguenza, avranno effetti benefici sulla ristrutturazione delle nostre connessioni sinaptiche. Come una buona psicoterapia.

Attraverso una pletora di atteggiamenti e stili di vita che possiamo mettere in atto durante la quarantena possiamo essere gli attori e i protagonisti del nostro destino in un senso positivo: l’evitare di “abbuffarsi” di notizie negative, sostituendole con la lettura o l’ascolto tramite audio-libri di opere di letteratura, di poesia, l’utilizzo di sistemi interattivi via web per prendere visione di siti archeologici, gallerie d’arte, ma anche l’ascolto di musica classica, le buone conversazioni via Zoom, WhatsApp, Teams e altri mezzi, la possibilità di uscire all’aria aperta per camminare, l’abituarsi a un silenzio ricco di esperienze positive, lo sbizzarrirsi in cucina o nel giardinaggio, o in un qualsiasi hobby capace di distogliere la nostra attenzione sulla pandemia, tutto questo e molto di più, può contribuire in senso positivo a prevenire e ristabilire quegli equilibri neurochimici ed elettrici del nostro cervello.

di Alberto Carrara

CONTROVIRUS | Covid-19 e violenza domestica

Michele Mattia
Psichiatra e psicoterapeuta, Docente Università dell’Insubria, Presidente ASI-ADOC

L’allarme per l’aumento della violenza domestica contro le donne a causa del confinamento è stato spesso segnalato dai media in tutto il mondo. 

Nel mondo una donna ogni tre è vittima di violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner.

E questa violenza aumenta in ogni tipo di emergenza, alimentata  dalle angosce e dai timori che concernano la malattia e il senso dell’esistenza, dalla frustrazione, dai tempi di convivenza più lunghi e spesso dall’abuso di alcol favorito dall’inattività. Inevitabile che il lockdown conseguente alla pandemia sia stato un trigger potente di questa drammatica piaga. 

In Cina, i primi dati relativi ai casi riportati dalla polizia di Jingzhou, nel febbraio del 2020, segnalavano che i casi erano triplicati in rapporto allo stesso periodo del 2019.

L’associazione of Rape Crisis Centers in Israele, ha evidenziato un aumento del 40% dei casi di violenza domestica durante la pandemia Covid 19.

Una review pubblicata su Lancet, ad inizio marzo, ha valutato tutti gli studi (oltre 3000) effettuati in relazione a tutti i periodi di quarantene avuti nel  passato e il rischio di violenza domestica.

Nella review sono stati inclusi 24 studi e il risultato ha evidenziato un aumento della violenza domestica, particolarmente se la quarantena era troppo prolungata. 

Anche in Svizzera il problema è quanto mai attuale. Già prima della pandemia, l’Ufficio Federale della Statistica (OFS) dichiarava che 51 atti di violenza domestica erano segnalati ogni giorno fra i quali un tentativo di omicidio per settimana e un omicidio effettuato ogni due settimane. Tra le vittime che si sono presentate nei servizi d’urgenza, secondo i dati retrospettivi del Canton Berna, il 94% erano donne. Ed è ipotizzabile che vi sia un numero elevato di casi non repertoriati, in quanto unicamente il 20% di tutti i casi legati alla violenza domestica sono registrati dalla polizia. E il confinamento della pandemia rende ancora più difficile per le vittime segnalare gli abusi.

Per cercare di aiutare le donne a denunciare le violenze psicologiche o fisiche, il Canton Ticino, ha inviato, nei giorni scorsi, un volantino di sensibilizzazione a tutti i cittadini, con il numero di telefono  cui rivolgersi per ogni necessità.

Premesso che la violenza contro le donne ha le radici nella cultura maschilista secolarizzata che porta a privilegiare la struttura patriarcale, a legittimare la violenza dell’uomo sulla donna, e a sviluppare sindromi narcisistiche gravi, il ricorso alla violenza spesso è legato a un vissuto di impotenza nel gestire un conflitto, perché l’aggressore  non si sente capace di utilizzare la comunicazione o altre forme e strategie per far valere il proprio punto di vista. Ricorre quindi a comportamenti che mirano a controllare la relazione e a intimorire e a svalorizzare l’altra persona con lo scopo di dominarla attraverso forme di manipolazione psicologica che quasi sempre scattano all’interno di relazioni e rapporti coniugali o di convivenza malati. Sono manipolazioni  caratterizzate da un incastro vittima-carnefice, nei quali uomini gelosi o ossessionati dal controllo isolano le proprie compagne rendendole insicure e depresse. Tra queste, una delle tecniche più diffusa è quella del gaslighting, che utilizza critiche quotidiane, battute cattive, offese indirette, malumori e costanti insoddisfazioni, per portare la vittima a sentirsi perennemente in debito, in colpa e dipendente dal proprio partner. Un’altra tecnica di acuta cattiveria, messa in atto dai narcisisti perversi, è quella che si maschera da amore possessivo e geloso per imprigionare il partner in una relazione tossica. Un vero e proprio massacro psicologico in cui la vittima si convince di essere incapace e piena di difetti. A questi abusi psicologici si sommano spesso quelli economici e  sessuali. Purtroppo risulta  molto difficile riconoscere il potenziale manipolatore, perché si tratta quasi sempre di persone apparentemente normali.

E’ importante mettere in evidenza come molte vittime, quando entrano in questo circuito di violenza psicologica, hanno angoscia e addirittura timore di uscirne, perché sono talmente condizionate nel proprio senso di inferiorità, da pensare che l’aggressore abbia ragione. 

La svalorizzazione programmatica produce infatti nella vitima un senso profondo di insicurezza e di inquietudine e il timore di non farcela da soli. 

La violenza domestica si ritrova in tutti i contesti sociali, economici e culturali indipendentemente dall’età e dal sesso, e si osserva anche negli uomini e nelle relazioni omosessuali. 

Perché il COVID-19 ha fatto aumentare la violenza sulle donne? Le ragioni sono moltteplici.

  1. Si è modificata la rete di protezione sociale, con significativa  riduzione dell’accesso ai servizi 
  2. Le misure di distanza sociale hanno portato le persone a rimanere a casa, e il confinamento aumenta il rischio della violenza domestica, poiché i membri della famiglia rimangono molto tempo a casa in contatto fra di loro.
  3. Lo stress economico e il potenziale rischio di perdere il lavoro aumenta l’irritabilità e la rabbia sociale.
  4. Si sono ridotti, se non azzerati, i contatti con i membri della famiglia e gli amici che potrebbero aiutare le donne nei casi di violenza domestica.
  5. L’acceso ai servizi è molto limitato. 
  6. Il peso dell’aumento del lavoro domestico durante la pandemia e la riduzione dei mezzi di sostentamento e della possibilità di guadagnare lo stipendio, può aumentare lo stress familiare, con una potenziale di aumento significativo dei conflitti e delle violenze. 
  7. Il perpetratore degli abusi e delle violenze può usare le restrizioni dovute al Covid-19 per esercitare un maggiore potere di controllo sul partner e sui figli riducendo l’accesso ai servizi, agli aiuti, ai supporti psicosociali da parte delle reti sociali formai e informali, addirittura, lo si ì visto, impedendo l’accesso a degli oggetti necessari quali il sapone e il disinfettante.
  8. Gli aggressori possono esercitare il controllo diffondendo informazioni sbagliate in relazione alla malattia per stigmatizzare il partner.

Purtroppo non è facile prevenire e intervenire nei casi di violenza domestica. Proprio per il complesso di inferiorità conseguente agli abusi costanti, le vititme raramente denunciano, e se individuate spesso difendono il persecutore, perché sono state condizionate a ritenere che la violenza sia una forma d’amore e perché la loro autostima è talmente bassa da convincerle che non potranno farcela senza il loro partner.

Bisognerebbe quindi che chi opera nei servizi sanitari fosse sensibilizzato a riconoscere i sintomi  e depistare i fattori di rischio. Per esempio, nei disturbi cronici, quali colon irritabile, chronic pelvic pain, fissurazione anali croniche, vertigini, se non c’è una causa evidente potrebbe essere sottostante una violenza domestica, e sarebbe utile indagare, anche se purtroppo non è facile se la vittima non collabora. Altro campo da indagare è quello ginecologico con lesioni fisiche durante la gravidanza o la presenza di ripetute infezioni sessuali trasmissibili.

In relazione a una sofferenza psicologica non spiegabile, dobbiamo pensare ad una violenza domestica quando vi sono problemi emotivi continui, quali stress, ansia, depressione. 

Un’altra spia sono i comportamenti autolesivi, quali abusi di alcool di droghe o di farmaci, e i pensieri o i tentativi di automutilazione e di suicidio. 

Ci si può chiedere se l’uscita dal confinamento allevierà la situazione per le donne che durante il lockdown hanno subito un peggioramento della violenza domestica. La risposta è difficle, perché se da un lato l’uscita di casa allevierà il controllo patologico da parte dei persecutori, dall’altra i comportamenti ripetuti tendono a radicarsi, e l’insicurezza di sé sperimentata nel lockdown potrebbe perpetuarsi. 

Per aiutare le donne a reagire, è necessaria una forte campagna sociale di comunicazioni, che da un lato  le renda consapevoli della loro condizione e le aiuti a reagire, dall’altro sensibilizzi i membri della famiglia e gli amici ad aiutarle. Quasi sempre famigliari e amici sospettano gli abusi, ma non intervengono per non inerferire con gli equilibri famigliari, perché un malinteso rispetto della libertà individuale, o perché non sanno a chi rivolgersi.  Gli enti pubblici dovrebbero perciò creare una campagna di divulgazione rivolta a tutti i cittadini per stimolare l’attenzione alla piaga delle violenze domestiche e aiutarli a riconoscere le vittime. Bisognerebbe inoltre creare una sorta di vademecum con i consigli per tutta la famiglia in caso che la violenza venga riconosciuta.

I sanitari, medici di famiglia e medici di pronto soccorso, in primis, dovrebbero valutare quali sono i fattori di rischio del crescendo della violenza, nel corso degli ultimi sei mesi, quali la presenza di armi da fuoco a casa, il consumo di alcool o droghe, le minacce verso l’altro, il tentativo di strangolamento, un’eccessiva gelosia, problemi sociali familiari o finanziari, la dipendenza psicologica, fisica, o sociale della vittima. 

In particolare, chi è vittima di violenza domestica, fisica e psicologica, dovrebbe avere pronto un elenco con  il numero di telefono dei vicini, degli amici, della famiglia;  con tutti i numeri d’urgenza –soccorso medico, polizia, vigili del fuoco;  con le hot line specifiche per la violenza,  e con le case protette.

Dovrebbe assicurarsi l’accesso ai documenti importanti, che spesso rimangono in mano a chi esercita la violenza, e ai soldi –quasi sempre le vittime non hanno né conto in banca, né carta di credito e sono in balia del loro partner per qualsiasi spesa, non sono quasi mai a conoscenza dell’entità dei risparmi famigliari e a volte nemmeno delle banche in cui sono depositati.

E dovrebbe aver pronta una via d’uscita veloce in caso di peggioramento della situazione.

Le donne che non osano denunciare la violenza e magari in caso di flagranza la negano, sono in realtà ben consapevoli di subire abusi. Prepararsi una via d’uscita potrebbe essere già un modo di reagire psicologicamente, e di sentirsi protette nel caso che gli abusi si aggrivino.

di Michele Mattia

CONTROVIRUS | Le responsabilità per il futuro

di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

Siamo in un memento storico in cui, come nella Resistenza e nel dopoguerra, si ripete una situazione dove il destino individuale è legato a quello dell’umanità intera. E in cui abbiamo la possibilità di essere artefici di un nuovo inizio che avrà ripercussioni nella vita di tutti.

Lo ha spiegato con grande intelligenza lo storico israeliano Yuval Noah Harari quando ha dichiarato che l’uscita dalla pandemia e la costruzione del futuro non è qualche cosa di deterministico che dipende da Dio o dalla fortuna, ma esclusivamente dalle nostre scelte collettive. I miracoli su questa terra li possono fare solo gli uomini, scriveva Hans Jonas nel secolo scorso quando ricordava che Auschwitz era nato da una decisione degli uomini e che invece uomini per bene avevano dato la loro vita per fare rinascere un mondo nuovo.

Ebbene, come osserva Harari, ancora oggi gli uomini possono essere gli artefici di azioni collettive che possono cambiare la storia.

Sono tre le decisioni fondamentali da prendere.

1) Scegliere se affrontare questa crisi con l’isolamento nazionalistico dove ogni Paese è in competizione con l’altro, oppure costruire un percorso di solidarietà internazionale che non lasci indietro l’Africa, l’India e l’America latina e i diseredati nei campi profughi. La pandemia non si vince in un Paese solo immaginando dei muri invalicabili tra una nazione e l’altra, anche perché il virus non si arresta alle frontiere. Nessuno lo dice ad alta voce, ma qualcuno ritiene che ci siano degli uomini “superflui” che si possono abbandonare al loro destino nelle zone più povere del mondo. Qualcuno nell’estrema destra vorrebbe che il distanziamento sociale e le misure di autoprotezione diventassero un meccanismo di indifferenza nei confronti dei più poveri e dei più deboli. Lo abbiamo visto persino nelle società avanzate dove alcuni – penso al primo ministro inglese Boris Johnson in modo plateale, ma altri con mezze parole e affermazioni ambigue – hanno ritenuto che fosse inevitabile la perdita delle persone anziane più vulnerabili nei confronti del virus, quando invece l’allungamento delle aspettative di vita è una delle grandi conquiste della modernità.

2) Impedire che da questa emergenza nascano nel mondo nuove tentazioni autoritarie e riprendere il cammino della lotta per la democrazia in ogni parte dal pianeta.

Ci accorgiamo non solo che i regimi autocratici e dittatoriali, a partire dalla Cina, hanno allertato in ritardo le popolazioni per l’epidemia e ne hanno fatto occasione per restringere ulteriormente i diritti democratici, ma anche che la democrazia nel pianeta esiste ancora in pochi Stati e l’Europa rappresenta un’isola che non solo deve essere salvaguardata, e deve diventare un esempio per il mondo intero. Non possiamo esportare la democrazia con la forza, come volle fare George Bush in Medio Oriente con l’invasione dell’Iraq, ma le istituzioni internazionali e le opinioni pubbliche non possono tacere di fronte a quei leader che hanno varato leggi eccezionali non solo per combattere il virus, ma per rafforzare il loro potere autoritario in ben 84 Paesi, come ha ricordato l’Economist-, da Viktor Orbán in Ungheria, a Jair Bolsonaro in Brasile, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Recep Tayyip Erdoğan in Turchia, e primo fra tutti l’onnipotente Xi Jinping in Cina.

Può sembrare paradossale, ma proprio perché la lotta contro la pandemia in tutto il mondo richiede la partecipazione dei singoli individui nelle loro vite e non può dipendere solo dagli ordini dall’alto e dalle applicazioni tecnologiche, l’allargamento della democrazia e di diritti umani è fondamentale per vincere questa battaglia.

Ecco perché se saremo capaci di leggere con intelligenza politica il corso degli eventi e ascolteremo le voci di coloro che cercano di resistere ovunque ai dittatori potremmo riproporre gli ideali della democrazia e del pluralismo a livello universale come è accaduto dopo la sconfitta del nazismo e la caduta del muro di Berlino.
La mobilitazione contro il virus potrebbe diventare così un nuovo Rinascimento della democrazia in tutto il mondo e rompere molti muri che oggi ci sembrano insormontabili negli Stati teocratici, nelle democrazie illiberali, nella Russia autoritaria di Putin e nel comunismo cinese da cui tutto è partito.

3) Ascoltare la voce degli scienziati che non solo ci allertarono sul pericolo delle pandemie ma che rimangono ancora inascoltati sul monito che ci hanno lanciato sui cambiamenti climatici. Oggi è necessario non accettare più che la politica sia in mano ad incompetenti e populisti, perché se non ci si affida alle conoscenze che la ricerca scientifica ha sviluppato in tutti i campi non si potrà essere in grado di salvare il pianeta. Ci vuole un’alleanza tra la scienza e la politica per affrontare le nuove emergenze, come forse mai è capitato nella storia.

Cosa succederà per esempio con lo scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide e l’innalzamento dei mari? Potremo impedire e governare questi fenomeni solo se guidati da una nuova élite politica con una formazione scientifica adeguata. Non è più possibile che il Presidente americano suggerisca di iniettarsi dei disinfettanti contro il virus o continui a negare i cambiamenti climatici. In questi giorni l’immagine di Trump non è solo il segno della caduta di una leadership morale degli Stati Uniti nei confronti del mondo, ma la rappresentazione della crisi della competenza nella politica. Si è accettata l’idea che per governare bastasse essere showmen capaci di divertire le persone in televisione, di raccogliere adesioni sui social con frasi ad effetto, di parlare alla pancia della gente proponendo il disprezzo degli avversari politici e ricette miracolose. Nessuno si chiedeva se un politico avesse studiato, conoscesse la storia, la scienza, l’architettura, la filosofia, se avesse competenze economiche, scientifiche e amministrative. Bastava che raccogliesse gli applausi nel dibattiti televisivi o like sui social per poi considerarlo degno di ricevere il nostro voto e di governare. In questi giorni si prova invece una sorta di fastidio vedendo quante persone incompetenti si trovino ai massimi vertici della politica. Quando parla in televisione un medico o un epidemiologo, ci si sente rassicurati anche se non ci offre la certezza della cura; quando prende la parola qualche politico si ha la sensazione del nulla al potere. Negli Stati Uniti la stella di Trump ha cominciato ad offuscarsi di fronte alla competenza scientifica del virologo Antony Fauci, che con la sicurezza che derivava dalle sue conoscenze non ha mai taciuto di fronte alle manifestazioni di incompetenza del Presidente americano.

Attorno a queste grandi questioni, indicate con straordinaria lucidità da Harari, Gariwo vuole dare un contributo per fare conoscere nei propri Giardini dei Giusti gli uomini migliori che oggi si sono assunti il compito di prendere in mano le decisioni fondamentali del nostro tempo.

Perché l’umanità possa scegliere nel modo migliore nelle situazioni di emergenza, ci vogliono dei grandi esempi di uomini visionari che ci indichino la strada da percorrere.

È accaduto durante la lotta di liberazione dal nazismo, dove grandi figure politiche, intellettuali, artisti, scienziati, imprenditori, uomini coraggiosi furono capaci di prendersi sulle spalle le redini del mondo.

Ecco perché con il nostro lavoro ci sforzeremo di far conoscere degli esempi di uomini che oggi lottano per la collaborazione internazionale, per la difesa della democrazia contro ogni forma di imbarbarimento e di controllo autoritario delle persone, per ridare alla conoscenza e alla scienza un ruolo di guida e orientamento.

Noi crediamo, come avevano intuito grandi filosofi come Baruch Spinoza e Soren Kierkegaard, nel ruolo fondamentale non solo delle idee, ma degli esempi concreti degli uomini in carne ed ossa che creano la magia dell’emulazione.

Dobbiamo cercare e far conoscere le donne e gli uomini Giusti del nostro tempo perché ci aiutano a pensare, a scegliere, a ritrovare il gusto del futuro e della speranza.

di Gabriele Nissim

CONTROVIRUS | La lotta di un medico in prima linea

Francesca Francavilla,
medico d’urgenza

Intervista di Clara Caverzasio a Francesca Francavilla, medico d’urgenza.

“Noi medici del pronto soccorso siamo sempre stati dei punching-ball. Una funzione importantissima, certo, perché la popolazione è abbandonata. I medici di famiglia non ci sono più, e ospedalieri e specialisti non accettano nuovi pazienti – perché costretti o per chissà quale altro motivo. Ma se il paziente diventa un nemico vuol dire che il sistema sanitario non funziona più”. Francesca Francavilla, medico di pronto soccorso in Umbria, “follemente innamorata della medicina d’urgenza”, per anni ha denunciato le criticità e le storture della sanità italiana. Invano. Due mesi fa ha deciso di non rinnovare il suo contratto con pronto soccorso e 118, per mettersi a disposizione delle USCA – le Unità Speciali di Continuità Assistenziale che visitano i COVID-positivi a domicilio. Un servizio attivo solo in alcune regioni italiane, nessuna delle quali è fra le più colpite dalla pandemia.

Secondo la sua esperienza personale (e non solo), le USCA sono state una scommessa vincente. Ad Harvard, spiega, hanno analizzato i modelli di reazione al virus delle tre regioni italiane più colpite. Risultato: l’ospedalizzazione è stata la scelta peggiore. “Abbiamo intasato i reparti come autostrade a ferragosto. E nessuno ha messo in conto la sepsi ospedaliera, che miete 49.000 morti l’anno. A tutti i familiari dico che i pazienti anziani sopravvivono all’infarto, all’ictus e a tante altre patologie, ma non alla sepsi. Perché la sepsi colpisce più organi insieme, e innesca sistemi immunomediati che sono più pericolosi del virus stesso”.

Laddove lo si è sperimentato, il trattamento a domicilio dei malati di Covid non gravi è stata la scelta migliore. “Il mio buon senso, ma anche l’esperienza fatta in Veneto e in Emilia-Romagna – ma anche in Umbria dove sono state attivate le USCA –, mi dice che lasciare a casa i pazienti positivi e sintomatici è stata la chiave di volta. Anche grazie alla idrossiclorochina, un antimalarico utilizzato contro l’artrite reumatoide e che si è dimostrato efficace già nell’epidemia di Sars nel 2003. La usiamo non perché abbia un’azione diretta antivirale, ma perché è in grado di ridurre il rischio di infiammazioni potenzialmente mortali a livello polmonare”.

In Umbria l‘USCA è stata attivata il 28 marzo. “Se alla vigilia di Pasqua avevamo 120 pazienti positivi e sintomatici con tosse, febbre e a volte dispnea, ora ne abbiamo solo 15. Gli altri stanno tutti bene. Sentiamo tutti i giorni persone che faticano a respirare: andiamo subito a visitarli, e li facciamo ricoverare solo se è necessario. Colleghi di Bergamo e di Milano mi dicono che lì questo servizio non è attivo. E allora c’è qualcosa che non mi spiego: se in Umbria e in Toscana non ci sono molti decessi, e a Milano hanno chiuso le rianimazioni, da dove vengono tutti i morti annunciati ancora in questi giorni? Forse si tratta di pazienti abbandonati a casa, che non sono andati in ospedale per la paura del contagio?”.

L’attivazione delle USCA su tutto il territorio, secondo Francavilla, permetterebbe di tornare più velocemente alla normalità. E non solo per motivi terapeutici. “Se permettessimo alle persone di respirare aria pulita, di prendere il sole e di essere rilassati e tranquilli, anche il sistema immunitario ne beneficerebbe: ingabbiare la gente non è meno grave che aprire i ristoranti”.

A questo proposito Francesca Francavilla aggiunge una riflessione interessante: “io sono anche agopuntrice, mi occupo di medicina tradizionale cinese. Secondo questa tradizione l’organo della tristezza, della frustrazione, della depressione, è il polmone. E il Covid, guarda caso, colpisce proprio il polmone. Quindi non dobbiamo dare l’occasione a questo virus di entrare, non dobbiamo aprirgli la porta per nessuna ragione al mondo. Niente panico, niente paura: questo è il momento del coraggio, della rinascita. In questo momento strano, “straordinario”, cioè fuori dell’ordinario, ci viene chiesto di essere stra-ordinari. Dobbiamo ripartire da noi”.

Una considerazione che può sembrare squisitamente filosofica, ma che ha un fondamento scientifico importante. L’eccessiva paura, l’ansia, attivano infatti il sistema simpatico, portandoci a scaricare continuamente ormoni come l’adrenalina e il cortisolo provocando “ansia da anticipazione’. Quell’ansia che ci permette di tenere tutti i motori al massimo in modo da essere in grado di reagire con la lotta o la fuga: fight or flight. Il problema è che se la paura perdura a lungo, l’energia degli organi interni si esaurisce, abbassando il livello di difesa. “E così si spalanca la porta alla malattia. È la paura, di fatto, a produrre il processo infiammatorio che porta ad ammalarsi”.

Francavilla non è certo l’unico medico a invocare una maggiore sensibilizzazione sull’importanza dell’aspetto psicologico. In Israele, per esempio, si sperimentano strumenti innovativi per non lasciare da soli i pazienti nelle case per anziani. All’Ichilov Hospital di Tel Aviv diretto dal dottor Ronni Gamzu, commissario governativo per le case anziani, sono state predisposte barriere e strumenti di protezione personale per consentire le visite dei famigliari agli anziani ricoverati, e anche la possibilità di accompagnarli nel momento del passaggio. Per altri istituti dove ciò non è possibile si sono ideate soluzioni quanto meno fantasiose: ad esempio, consentire ai familiari di salire su gru da edilizia appositamente attrezzate per vedere i malati nelle loro stanze. Gamzu lo ha toccato con mano: l’isolamento può portare i pazienti più anziani o debilitati ad abbandonare ogni resistenza alla malattia.

Francavilla ne è convinta: la lotta al coronavirus va bilanciata tenendo conto anche di questi altri aspetti. “Non possiamo vincere la battaglia al Covid e perdere la guerra. In questo senso, sono del parere che tutti noi dobbiamo rivedere le nostre priorità, perché la chiave di volta alla fine siamo sempre noi stessi, e la qualità del nostro sistema immunitario dipende da noi. Io faccio il medico, ma i medici non mi hanno convinto per niente. Solo quando c’è un dubbio, quando siamo disposti a metterci in discussione, può esserci cambiamento. Siamo noi che possiamo fare la differenza. Sempre”.

di Clara Caverzasio

CONTROVIRUS | Covid e cervello

Intervista di Viviana Kasam (Presidente di BrainCircle Italia) al prof. Giancarlo Comi, direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale presso l’Istituto San Raffaele, e professore onorario di Neurologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. Comi è anche vice presidente del Comitato Scientifico della International Federation of Multiple Sclerosis, per conto del quale ha contribuito alla produzione del COVID 19 advice for multiple sclerosis patients ed è coautore di alcuni recenti articoli sull’argomento, pubblicati o sottomessi a riviste prestigiose come Lancet Neurology e JAMA Neurology.

Professor Comi, uno dei sintoni della malattia è la perdita di gusto e olfatto. Questo potrebbe indicare una ripercussione sul cervello?

È una domanda interessante, perché in effetti il 30-50% dei malati perdono in un sol colpo gusto e olfatto. Ed è un sintomo altamente suggestivo del Covid-19, mentre per esempio la febbre può manifestarsi per molte altre patologie. Lo potremmo definire il “marchio di fabbrica” del Covid 19 e ci è utile per riconoscere subito la malattia. Non sappiamo con certezza perché avvenga. Una prima ipotesi è che il virus presente a livello delle mucose nasali, della faringe e della lingua potrebbe causare un malfunzionamento dei recettori. Ma se così fosse, perché non si manifesta in tutti quelli in cui rileviamo la presenza del coronavirus? Una ipotesi alternativa è che il virus risalga attraverso le fibre nervose afferenti, raggiungendo le aree olfattorie e gustative del sistema nervoso centrale, le seconde situate nel bulbo cerebrale. Il bulbo cerebrale contiene anche aree preposte al controllo di funzioni vitali come il respiro e la frequenza cardiaca. Ci potrebbe essere una disfunzione dei centri respiratori per diffusione locale del virus, o anche perché il virus potrebbe risalire da afferenze nervose che provengono dal polmone e si connettono direttamente al centro del respiro. La possibilità di un contributo a determinare la gravità dei problemi respiratori anche da parte di un alterato controllo nervoso del respiro spiegherebbe, come mi hanno anche riferito i colleghi rianimatori, le difficoltà che a volte insorgono quando si estubano questi pazienti, ovvero li si stacca dal respiratore: “alcuni pazienti sembra che abbiano disimparato a respirare”.

Il Covid 19 non colpisce solo i polmoni. Lei parla del cervello, ma si sono riscontrati anche seri problemi a livello vascolare, tant’è vero che ci sono molte proposte di trattare la malattia con anticoagulanti.

Quello che lascia tutti perplessi è la grande variabilità individuale dei percorsi e il fatto che in molti dei pazienti più gravi insorgono complicanze che con l’aspetto polmonare non hanno molto da spartire. Per esempio, si sono riscontrate alterazioni importanti nella funzionalità dei vasi per un tropismo nelle loro pareti interne, con conseguenti problemi di coagulazione vascolare diffusa, che ostacola il flusso del sangue e causa danni a organi come i reni, il cuore e anche il cervello per il minor apporto di ossigeno. Per cercare di prevenire questo tipo di condizione si è suggerito di mettere in atto terapie anticoagulanti Si è poi individuato che sono in gioco anche risposte immunomediate, cioè non dovute a una azione diretta del virus ma modulate dalla reazione immunologica al virus stesso. Succede anche in altre patologie, come la leucoencefalopatia multifocale progressiva provocata dal virus JC che si annida nel cervello e ne distrugge la sostanza bianca. In persone che hanno il sistema immunitario indebolito, magari perché assumono farmaci immunosoppressori. In quest’ultimo caso la reazione immunitaria avviene quando la sospensione del farmaco rimette pienamente in funzione il sistema immunitario. A quel punto nella sede di infezione si ha una violenta reazione infiammatoria con accumulo di linfociti e macrofagi e una tempesta di citochine. Il tessuto nervoso già danneggiato dal virus è trasformato in un campo di battaglia che per un certo tempo può contribuire a incrementare il danno. Partendo da queste osservazioni, si è perciò pensato di trattare i pazienti COVID 19 con farmaci che producessero una inibizione o almeno una forte riduzione della risposta infiammatoria. Da qui gli studi sugli anti-interleuchina 6, che è una potentissima citochina infiammatoria: bloccandola, la reazione infiammatoria si riduce di molto. Non essendo un virologo né un infettivologo, di più non posso dire. Però sono in corso studi sia italiani che multicentrici internazionali attraverso i quali cerchiamo di capire se persone con sclerosi multipla, che assumono terapie che riducono l’efficienza del sistema immunitario o lo modificano, migliorino l’evoluzione dell’infezione da SARS-CoV-2.

Ma gli antinfiammatori deprimono il sistema immunitario. Chi li assume, non dovrebbe risultare più esposto al virus?

È una situazione paradossale, che peraltro abbiamo verificato anche in uno studio su 400 pazienti di sclerosi multipla che stiamo seguendo da un anno nell’ambito di un progetto che coordino per l’Unione Europea. Questi pazienti sono monitorati quotidianamente grazie a dispositivi indossabili – i braccialetti Fitbit –, smartphone e interviste telefoniche per valutare vari parametri: sonno, fatica, umore, che interessano il decorso della malattia. Quando è scoppiata la pandemia, abbiamo pensato che potevano costituire un campione significativo per avere un quadro epidemiologico e comportamentale in questa popolazione di cui possiamo ricostruire tutti i movimenti.

Il risultato?

Lo studio, che è stato sottomesso in questi giorni su Lancet Digital Health, fornisce indicazioni interessanti. I pazienti sono distribuiti in tre città, due molto colpite dal Covid 19, Milano e Barcellona, una molto meno, Copenhagen. Il dato più eclatante è la percentuale di persone che hanno contratto la malattia, in forma più o meno severa. È il 9,1%. Se questi risultati si potessero trasferire all’intera popolazione, vorrebbe dire 5/6 volte il numero di malati stimati finora. Lo studio ha anche dimostrato che i nostri malati sono stati molto ligi nel seguire le indicazioni di isolamento emanate dal governo e rinforzate dal documento di cui sopra. Nel giorno stesso in cui è stato detto di non muoversi, la loro mobilità fuori casa, stimata dal giroscopio dei cellulari, è andata a zero. In tutte e tre le città. Ora dobbiamo studiare i contatti che i singoli pazienti, sia quelli che hanno contratto la malattia sia quelli rimasti sani, avevano avuto nella fase precedente al lockdown, dati di cui disponiamo e che potrebbero fornire indicazioni interessanti sulla epidemiologia del Covid 19.

Ma le persone affette da sclerosi multipla assumono spesso farmaci immunologici. Non risultano perciò più esposti, in quanto il loro sistema immunitario è più debole?

Potrebbe essere, e infatti nelle indicazioni che abbiamo prodotto raccomandiamo cautela nella prescrizione di terapie molto aggressive, tuttavia come avevo già detto potrebbe anche essere che alcuni di essi esercitino un ruolo protettivo, proprio perché potrebbero attenuare la risposta immunologica control il virus. Questo lo sapremo presto dai risultati degli studi in corso.

L’età del vostro campione?

Relativamente giovani. L’età media di esordio della malattia è intorno ai trent’anni.

Secondo te le persone fragili, come i vostri malati, o gli anziani, dovrebbero essere tenuti isolati più a lungo, anche nella fase 2?

Sono assolutamente contrario a una selezione basata su criteri di età o di fragilità. Certo, l’intento di un simile provvedimento potrebbe avere l’obiettivo di proteggere questa fascia di persone. Ma credo che oggi siamo consci dei rischi a cui ci possiamo esporre e che potrebbero comportare conseguenze più gravi in considerazione dell’età e della fragilità, spetta quindi a noi proteggerci e agire con giudizio. L’unico criterio per isolare delle persone selettivamente dovrebbe essere l’eventuale rischio che queste persone infettino altri e costituiscano quindi un rischio per il resto della popolazione. Ma da questo punto di vista, tra le persone che potrebbero essere rimesse in circolazione nella cosiddetta fase 2, i più pericolosi come veicolo di infezione sono i giovani, che spesso manifestano sintomi lievi o rimangono asintomatici, e quindi circolano liberamente. Gli anziani e le persone fragili sviluppano invece i sintomi molto rapidamente e più gravemente, il che li rende meglio identificabili. Inoltre, tendono a curarsi e proteggersi proprio perché sono consapevoli della loro fragilità. Va anche tenuto in considerazione che sono la fascia con più necessita di attività e di riprendere attività sociali. Tenerli chiusi in casa non solo è anticostituzionale e inutile, ma anche dannoso e crudele. La prudenza deve valere non solo nei confronti degli anziani ma di tutti. La fase 2 va programmata come il percorso su un terreno minato. Non si fa un passo avanti finché non si hanno i piedi al sicuro.

di Viviana Kasam e Giancarlo Comi