CONTROVIRUS | L’ ”Umanesimo clinico” nella pandemia

Intervista di Clara Caverzasio a Roberto Malacrida

Roberto Malacrida, membro della Commissione nazionale di etica in materia di medicina umana;
Già primario di Medicina intensiva e direttore medico dell’Ospedale Regionale di Lugano

Erano i primi anni ’90 quando in una Facoltà di medicina di una università del Texas, quella di Galvenston, “ci si rese conto che non solo gli studenti, ma anche i medici, non avevano ben chiaro cosa fosse la malattia e cosa volesse dire essere ammalati . E così alcuni docenti di quella facoltà decisero di far ricorso ai testi letterati di grandi scrittori che parlano di malattia, -daThomas Mann e la sua Montagna incantata a La Peste di Camus, per non citare che i più noti- convinti che attraverso la letteratura si potesse far passare meglio quei concetti.
Anche se l’esigenza di arricchire gli studi nelle scienze mediche con le discipline umanistiche nasce già sul finire degli anni ’60 e proprio in America, quella di Galvenston è una delle prime esperienze in Medical Humanities, un nuovo ambito di riflessione che si approccia alla medicina dal punto di vista etico, considerando le componenti psicologiche, sociali e culturali della relazione tra il medico e il paziente. 
Una esperienza che mai come oggi acquista di importanza a fronte di una medicina scientifica  – la tecno-medicina iperspecialistica cui dobbiamo molte conquiste- ma che di fatto, si è un po’ allontanata dall’ “arte medica”, quella che si occupa dei pazienti non solo dal punto di vista clinico-terapeutico, ma anche dal punto di vista umano ed empatico. E non da ultimo ‘etico’. 
Uno dei primi in Svizzera ad interessarsi a questo nuovo approccio, e all’esigenza di promuovere un“umanesimo clinico”, è stato il dottor Roberto Malacrida, a lungo primario di Medicina intensiva e direttore medico dell’Ospedale  Regionale di Lugano, oltre che membro della Commissione nazionale di etica in materia di medicina umana. 
Di ritorno da Galvenston, dove si era subito recato per capire che cosa stavano sperimentando, Malacrida creò, nel 2000, la Fondazione Sasso Corbaro, Istituto ora associato all’Università della Svizzera Italiana, che si dedica, prima in Svizzera, alla promozione dell’etica clinica e delle Medical Humanities , che rispondono appunto alla volontà di introdurre nell’ambito della cura due componenti essenziali senza le quali la pratica terapeutica rischia di ridursi a un arido intervento tecnico: i criteri etici e la necessaria sensibilità verso la dignità del paziente, nel rispetto della sua sofferenza somatica e psichica. Da allora La Fondazione ha creato un centro di documentazione che ora raccoglie ben 6500 libri e 1200 film dedicati all’etica e alle Medical Humanities ; e ha organizzato vari Master -a cominciare nel 2002 da quelli con l’università dell’Insubria, con la Facoltà di medicina di Ginevra, e in seguito con la Supsi-, in cui ha dato molto spazio a questo sguardo culturale. Col tempo ha iniziato a svolgere anche attività di ricerca, tra cui, recentemente uno studio che ha a che fare proprio con la situazione di emergenza pandemica che stiamo vivendo: “ in collaborazione con la Facoltà di scienze biomediche dell’USI, ci stiamo interessando a come cambia la presa di decisione etica in caso di pandemia, per capire come funziona la giustizia distributiva, ovvero come funziona il triage, che è il sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni o malattie secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico.”
Una situazione, quella della pandemia, che stiamo sperimentando proprio in questo periodo e che mostra come l’emergenza che si è venuta a creare con il coronavirus ha portato con sé alcuni cambiamenti e non poche difficoltà anche dal punto di vista etico e delle Medical Humanitiesintanto perché “nella cura, in cui prima vi era sempre e soltanto un rapporto uno a uno, quindi curante-paziente, ora è entrata la collettività, così che le Medical Humanities ora “hanno l’obbligo di interessarsi più da vicino della solidarietà (…).
Al di là del rischio, concreto, che in una situazione di emergenza clinica stringente come questa, le scienze umane mediche vengano un po’ trascurate proprio nel momento in cui in realtà sarebbero più necessarie, lo ‘stato di necessità’ indetto dalle autorità ha fatto emergere vari problemi come “quello legato alle direttive sul pericolo della vicinanza: le Medical Humanities hanno sempre insistito sull’importanza della vicinanza  tra curante e ammalato, una vicinanza cosiddetta ‘giusta’, che non crei confusione, e che ora più che mai non deve diventare troppo stretta, anzi, giacché non sono più consentite le visite da parte dei familiari o degli amici, e il tempo di visita deve essere limitato anche nei casi di fine vita.”
Ecco perché secondo il dottor Malacrida “si prevede che al momento della post-pandemia si dovranno investire molte energie per aiutare i famigliari a elaborare meglio il lutto e si dovrà affrontare anche il disagio psichico che i pazienti guariti hanno comunque vissuto a causa della lontananza, fisica per lo meno, dei loro cari.
Su queste e altre nuove sfide, che la società in generale e la medicina in particolare, comprese le Medical Humanities, dovranno affrontare, ci parla in una lunga intervista proprio il dottor Roberto Malacrida, che ci racconta anche il suo percorso professionale volto a promuovere un Umanesimo clinico.

INTERVISTA A ROBERTO MALACRIDA

L’ ”Umanesimo clinico” nella pandemia


Cosa è cambiato e quali problemi sono insorti, e insorgeranno, anche dal punto di vista etico e delle scienze umane  medichea seguito della ‘emergenza pandemica. 

Dottor Malacrida, lei è stato tra i principali promotori delle Medical Humanities in Svizzera: intanto ci vuol spiegare di cosa si tratta e da quale esigenza nascono?
Le Medical Humanities, che insieme al dottor Graziano Martignoni chiamiamo talvolta anche ‘umanesimo clinico’, nascono di fatto più di trent’anni fa negli Stati Uniti, e più precisamente all’università di Galvenston in Texas, presso la facoltà di medicina, dove ci si era accorti che non solo gli studenti, ma anche i medici, non avevano ben chiaro cosa fosse la malattia e cosa volesse dire essere ammalati . E così alcuni docenti di quella facoltà, proposero, con un approccio interdisciplinare, di far ricorso ai testi letterati di grandi scrittori che parlano di malattia, –  -si cita sempre Thomas Mann e la sua Montagna incantata, così come La peste di Camus, ma ce ne sono almeno 3000 -, – convinti che attraverso la letteratura si potesse far passare meglio quei concetti. 
Così, nel 1995 credo o in quegli anni, mi recai a Galvenston per capire un po’ cosa facessero. E quando tornai, decisi di creare, nel 2000, la Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities, che riprendevano un po’ questo concetto. Concetto che poi si è evoluto, nel senso che ci si è accorti della grande difficoltà che i medici hanno nella modalità di comunicazione soprattutto delle cattive notizie, cioè delle notizie legate alle diagnosi pesanti, e poi alle prognosi difficili. E ci siamo interessati molto a questo problema, che è legato anche alla comunicazione. Dato che non avevamo dei letterati che potessero aiutarci in maniera specialistica, siamo ricorsi al cinema, che a quei tempi era un po’ una novità; adesso i film vengono usati in questo senso da moltissimi, credo. Devo dire che la nostra scelta è dipesa in realtà da un elemento privato legato alla mia famiglia: mia figlia infatti si era laureata in storia del cinema a Losanna ed è stata lei che ci ha suggerito e consigliato i film da scegliere e commentare. Per la stessa ragione, nel 2000 abbiamo cominciato a creare un Centro di documentazione presso la Fondazione Sasso Corbaro, che adesso raccoglie 6500 libri e circa 1200 film dedicati all’etica e alle Medical Humanities. A seguito della recente associazione della nostra Fondazione all’Università della Svizzera italiana, attraverso la Cattedra di salute pubblica che prevede anche l’insegnamento dell’etica e delle Medical Humanities, il centro di documentazione sarà una succursale esterna della Biblioteca dell’Università della Svizzera Italiana e servirà soprattutto ai futuri studenti della Facoltà di scienze biomediche. 
Al centro delle Medical Humanities per noi, o almeno per me, vi é la disciplina della bioetica, e in particolare dell’etica clinica che è collegata al letto dell’ammalato. E attorno ad essa varie discipline, che vanno dalla filosofia e alla psicologia in particolare, all’antropologia, all’economia sanitaria, ma anche al diritto, che è di grande importanza rispetto all’etica. E non ultimo le arti, perché, e lo dico con prudenza, noi pensiamo che la cultura, intesa come sensibilità culturale, può essere di grande aiuto per comunicare meglio e per essere più sensibili, -oggi si direbbe empatici,- nei confronti di chi è ammalato. La nostra idea è che la cultura aiuti a capire meglio chi è ammalato e la sua situazione, ed è per questo che in tutti i Master che abbiamo organizzato, a cominciare nel 2002, da quelli con l’università dell’Insubria, con la Facoltà di medicina di Ginevra e in seguito con la SUPSI, abbiamo dato molto spazio a questo sguardo culturale, perché secondo noi la cultura può e dovrebbe portare a una migliore comunicazione empatica. Negli ultimi anni abbiamo dedicato il nostro insegnamento anche ai diritti umani, integrando così l’etica clinica con l’etica politica.

La Fondazione Sasso Corbaro non si limita a istituire dei Master o a gestire un centro di documentazione, ma svolge anche attività di ricerca
Sì, negli ultimi anni abbiamo dedicato le nostre ricerche a temi come quello dell’”intimità in Cure intense” o della “speranza nella comunicazione delle prognosi difficili” oppure dei dilemmi etici legati all’”autonomia relazionale”: progetti che abbiamo potuto pubblicare su ottime riviste scientifiche internazionali. Attualmente ci dedichiamo alle problematiche etiche poste dalla presa di “decisione etica nei gravi disturbi della coscienza”, dal coma agli stati di minima coscienza. 
Per quel che riguarda invece più da vicino le Medical  humanities, in collaborazione con la Facoltà di scienze biomediche dell’USI, ci stiamo interessando a come cambia la presa di decisione etica in caso di pandemia,per capire come funziona la giustizia distributiva, ovvero come funziona il triage, che è un sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni o malattie secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico. A dire il vero, fino a questo momento, in Ticino non siamo ancora arrivati a un vero problema di triage, anche perché l’organizzazione tra l’Ente ospedaliero e la clinica Moncucco è stata fin qui così efficace da avere un numero di respiratori e posti letto per ora sufficiente; speriamo che arrivi presto il picco pandemico, perché siamo quasi al limite; superato il quale poi bisogna fare una scelta più dura, più drastica, eticamente e umanamente più difficile.

Quali cambiamenti e quali difficoltà ha portato con sé dal punto di vista delle Medical Humanities questa situazione di emergenza venutasi a creare con il coronavirus?
La pandemia di per sé,  da un punto di vista bioetico ha prodotto un cambiamento importante, perché nella cura, in cui prima vi era sempre e soltanto un rapporto uno a uno, quindi curante-paziente, ora è entrata la collettività. E con essa è entrato il quarto principio della bioetica che è quello della giustizia distributiva, passaggio importante perché comprende il concetto del triage. Quando si esclude o non si considera la giustizia distributiva quindi la collettività, il bene della collettività, ecco che il triage non è così determinante rispetto alle speranze di vita dei pazienti, ma soprattutto nel fatto di non arrecargli del male. Il triage è importante sia in medicina intensiva sia in oncologia o in neurologia perché non ha senso essere troppo aggressivi se questa modalità d’intervento porta a una medicina futile, che fa più del male al paziente che del bene e quindi perde di senso. In caso di pandemia, il rapporto fra curante e paziente deve inglobare anche la collettività e in questa situazione direi che le Medical Humanities hanno l’obbligo di interessarsi più da vicino della solidarietà: anche all’interno della Commissione nazionale svizzera di etica abbiamo discusso a lungo dell’importanza del concetto etico-politico della solidarietà di emergenza pandemica, a sua volta è legato al concetto di prudenza, necessaria se non si vuole fare del male né a sé stessi né agli altri.
C’è poi un altro aspetto che caratterizza lo stato di pandemia con le Medical Humanities, che è quello legato alle direttive sul pericolo della vicinanza: le Medical Humanities hanno sempre insistito sull’importanza della vicinanza  tra curante e ammalato, una vicinanza cosiddetta ‘giusta’, che non deve diventare troppo stretta per non creare confusione, così come, naturalmente, non deve diventare ‘indifferenza’, come a volte magari può succedere a causa della paura e dell’ansia del curante, rispettivamente del paziente se la malattia è molto grave e la prognosi difficile da comunicare. Per esempio all’ospedale la Carità di Locarno, trasformato in un ospedale Covid, così come nelle Case per Anziani, non sono più consentite le visite da parte dei familiari o degli amici: il tempo di visita deve essere limitato anche nei casi di fine vita. Prevediamo che al momento della post-pandemia si dovranno investire molte energie per aiutare i famigliari a elaborare meglio il lutto, e si dovrà affrontare anche il disagio psichico che i pazienti guariti hanno comunque vissuto a causa della lontananza, fisica per lo meno, dei loro cari. 
C’è infine un ulteriore problema che riguarda soprattutto il personale curante, in particolare le infermiere:  qualora dovesse scattare davvero la procedura di accoglienza specifica, ovvero un vero Triage, sono possibili dei dilemmi sulle decisioni prese dai medici che non hanno potuto convincere tutti; si tratta del “distressmorale”, una situazione ben studiata nei reparti di cure intense dove talvolta l’infermiere deve continuare a curare dei pazienti senza esserne pienamente convinto, ma perché “così” ha deciso il medico.

In un momento di emergenza clinica stringente come questo, non c’è il rischio che le scienze umane mediche vengano un po’ meno proprio nel momento in cui in realtà sarebbe più necessarie?
Certo, ma è un problema di priorità vitali: se nei periodi “normali”, l’apertura dei reparti ospedalieri, compresi quelli delle Cure intense, nei confronti delle visite dovrebbe essere la più generosa possibile, quando ci si trova in una situazione di “stato di necessità”, come per l’attuale pandemia, è molto importante che le priorità siano di tipo medico, nel senso che, proprio per proteggere tutta la popolazione e naturalmente anche i curanti stessi, bisogna adottare delle soluzioni che evidentemente possono essere vissute come drasticamente inabituali.

Quello a cui si è assistito in queste ultime settimane è un corale sentimento di gratitudine e riconoscenza, con manifestazioni pubbliche inedite, come gli applausi alle finestre a una determinata ora – verso il personale medico e paramedico, veri simboli della resilienza, come se in fondo l’umanizzazione auspicata nel rapporto tra medico e paziente, ora avvenisse in senso contrario, tra i pazienti e il pubblico da un lato e il personale medico dall’altro. Un nuovo modo di vivere e intendere le Medical Humanities?
Credo che un aspetto da non dimenticare è da ricercare nel fatto che la probabilità per i curanti di essere contagiati, quindi di subire le conseguenze di un contagio da covid19, è alta e molti curanti in Italia e Lombardia sono anche deceduti. Proprio perché la popolazione è in ansia, impaurita e angosciata di diventare positiva, perché magari si è già malati o anziani o tutte due insieme, si è sviluppata una solidarietà e una comprensione per il lavoro che il personale medico sta svolgendo, dai curanti nelle case per anziani o negli istituti per disabili, alle infermiere, ai medici delle Cure intense degli ospedali La Carità e di Moncucco. Questa compartecipazione, come ha detto lei è senz’altro una cosa molto bella.
C’è anche chi dice che con la pandemia si è diventati anche più severi nei giudizi rispetto a determinati atteggiamenti “alternativi” nei confronti della medicina ufficiale, come se davvero adesso “non si può più scherzare”;  ho letto che anche le cosiddette cure alternative fasulle hanno perso di credibilità. Si sta discutendo naturalmente di alcuni medicamenti che eventualmente potrebbero essere utili per guarire meglio, ma è come se si fosse spostato il piano della serietà, almeno dal mio punto di vista.

Questa situazione d’emergenza sta mettendo alla prova proprio i due capisaldi, le due componenti essenziali delle Medical Humanities, primo fra tutti, i criteri etici che devono opportunamente orientare le decisioni nei casi più problematici; non è forse la situazione in Svizzera, ma in altri paesi, confrontati con maggiori e a volte drammatiche difficoltà nelle strutture sanitarie, si pone in qualche caso anche la difficile scelta tra pazienti in gravi condizioni cui riservare l’ultimo posto in terapia intensiva o l’ultima attrezzatura disponibileper l’assistenza respiratoria . 
Quali sono in Svizzera i criteri etici che vengono adottati in questi casi? Vi sono linee guida valide per tutti i paesi, o per molti di essi?
Sì, sono state elaborate dalla Società svizzera di medicina intensiva e dall’Accademia svizzera delle Scienze Mediche.  Per quanto riguarda la “presa di decisione etica”, già prima della pandemia, se si voleva garantire una buona medicina si dovevano fare delle scelte, rispettando fin dall’inizio l’autonomia del paziente e le sue direttive anticipate: ci sono molti pazienti, tra quelli che hanno scritto le loro direttive anticipate, pazienti molto anziani e/o molto malati che scrivono o dicono al loro rappresentante terapeutico che non vogliono essere trasferiti  in un reparto di medicina intensiva e intubati, nel caso in cui il loro stato di salute dovesse peggiorare. Quindi già il fatto di rispettare l’autonomia del paziente permette di fare una scelta corretta. Secondariamente, ma non per importanza, come si diceva all’inizio, occorre prevenire l’accanimento terapeutico, evitare quindi trattamenti futili: in pratica astenersi dall’attaccare i pazienti alle macchine, intubarli e fare tutto quello che la tecnologia permette di fare, già sapendo che poi il paziente quasi sicuramente non uscirà dalle cure intense e alla fine vi morirà. 
Quindi il rapporto- rischio-beneficio deve essere calcolato bene per non fare del male al paziente, al quale una degenza in cure intensive procura comunque molte sofferenze.

Ma se ci si dovesse trovare, -e speriamo che non debba succedere mai in Svizzera o mai più in altri paesi come la Spagna,- di fronte a una persona di 75 anni e a un uomo di quarant’anni, entrambi con la quasi certezza di guarire, ma a condizione di poter essere attaccati a un respiratore, con quali criteri verrebbe fatta una scelta?  Nei casi in cui è successo, il criterio scelto è stato quello dell’età.
È un problema importante quello che lei solleva, perché ci sono state effettivamente  delle direttive che prevedevano come criterio determinante l’età anagrafica: per esempio in Inghilterra, alcuni decenni or sono, per preoccupazioni economiche legate alle spese della salute, si era deciso che i pazienti al di sopra dei 65 anni non dovevano più essere dializzati negli ospedali pubblici. A parte il fatto che si era creato un problema di medicina a due velocità terribile, perché i pazienti poveri non potevano essere dializzati mentre quelli più benestanti potevano andare nelle cliniche private e continuare a vivere; per fortuna si è poi rinunciato a questa legge. Oggigiorno la tendenza, e l’ho notato proprio nelle ultimissime direttive dell’Accademia svizzera delle scienze mediche e la Società svizzera di medicina intensiva, è quella di non mettere limiti d’età anagrafica. È chiaro che l’età comporta una morbidità e una presenza di malattie più alta: l’ottantenne è più ammalato in genere rispetto al quarantenne, e quindi l’età entra di sicuro a far parte dei criteri, ma non dovrebbe essere il criterio iniziale per giudicare l’entrata o meno di un paziente nel reparto di cure intense. 42’16

Dal suo punto di vista cosa ci sta insegnando questa situazione? Di cosa dovremo tener conto quando tutto questo sarà finito, quando l’emergenza sarà superata?
Dato che gli specialisti prevedono che a intervalli più o meno regolari possano ancora succedere delle nuove pandemie o dei ritorni di queste ultime, il fatto di essere preparati ed aver già sperimentato la situazione sia a livello logistico che a livello di personale, potrebbe essere un aiuto e un insegnamento, in modo che se dovesse capitare di nuovo non occorra organizzare tutto all’ultimo momento. Ma soprattutto quest’esperienza ci insegna che non si può più farsi trovare senza risorse, come altre nazioni hanno mostrato di esserlo, per aver tagliato in modo troppo importante i finanziamenti alla salute pubblica e agli ospedali in particolare.

Dal punto di vista delle Medical Humanities cambierà qualcosa?
Non so; per quanto riguarda l’aspetto comunicativo, se le conseguenze saranno pesanti, -soprattutto in termini di elaborazione del lutto non avvenuto o del trauma dei pazienti che hanno superato la malattia in condizioni di isolamento, questo ci potrà insegnare, quanto è importante la vicinanza e la buona comunicazione.
Per il resto credo che ragionare sul problema della malattia rispetto alla prognosi e poi rispetto anche al destino, sia molto importante, ed è quello che in fondo la Fondazione Sasso Corbaro ha fatto in questi vent’anni; questo potrebbe dare un certa preparazione filosofica, diciamo così, alla popolazione e abituarla ad affrontare possibili prossime pandemie, anche con uno spirito di solidarietà, di pazienza e di prudenza, che non devono essere imposte dallo Stato in modo magari categorico come è successo in Cina, ma devono attivarsi spontaneamente.
Le Medical Humanities dovrebbero sottolineare la priorità del valore della protezione della salute in generale, ma soprattutto della collettività, la più fragile nei confronti delle preoccupazioni economiche nazionali, anche se è molto probabile che le difficoltà economiche della post-pandemia avranno un impatto sulla salute, soprattutto delle classi più fragili della nostra società: la sfida etica sarà quella di saper bilanciare al meglio la difesa della salute individuale e collettiva contro gli interessi dell’economia.