CONTROVIRUS | Ricordiamoci dell’ambiente

di Rosalba Giugni,
presidente di Marevivo

Dopo solo poche settimane di lockdown, in Italia e nel mondo, abbiamo visto increduli, attraverso video diventati immediatamente virali, delfini e squali aggirarsi indisturbati addirittura nei porti, balene e polpetielli “sorridere” alle telecamere e dai satelliti immagini confortanti di mari limpidi e cieli sempre più chiari.

Affascinati da questo incredibile spettacolo della natura che si mostrava in tutta la sua bellezza, ci è venuto spontaneo chiederci che cosa potremmo fare perché tutto questo non finisca nel momento in cui saranno messe in atto la fase 2, la fase 3, la fase 4… Quando cioè tornerà la “normalità”, quella normalità che ci ha condotto ad affrontare una emergenza planetaria mai vissuta prima. Si parla giustamente di come rimettere in moto il motore produttivo che ha dato la possibilità agli uomini e alle donne di accedere a beni essenziali per la sopravvivenza, ma insieme vorremmo una visione più lungimirante del nostro futuro.

Il tempo del Coronavirus ci sta insegnando a mettere al primo posto i valori della solidarietà e della difesa della nostra casa comune. Come bene ha detto Papa Francesco, la figura spirituale forse di maggior riferimento oggi nel mondo, per cattolici e non, “ci siamo illusi di poter essere sani in un mondo malato”.

Non sprechiamo questi giorni preziosi, approfittiamo dell’occasione che costringe a riflettere, a studiare e a essere sempre più consapevoli della realtà nella quale siamo immersi.

Noi di Marevivo, stando tutti rigorosamente a casa, ci siamo impegnati su vari fronti per essere presenti con il nostro pensiero e cercando di incidere sul cambiamento che il Coronavirus ci sta insegnando.

La nostra divisione subacquea, essendo ferma e non potendo andare in acqua, ha chiesto al ministro dell’Ambiente Sergio Costa e alle forze militari che posseggono nuclei subacquei  di organizzare immersioni per osservare cosa si sta verificando nel mare in questo momento storico nel quale l’impatto dell’uomo è minimo. La risposta è stata immediata e l’operazione di osservazione scientifica è partita coordinata dal prof. Nando Boero, nostro vicepresidente e dal prof. Enzo Saggiomo della Fondazione Stazione Zoologica. Guardia Costiera, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato, insieme alla Fondazione Trianon e alla Stazione Zoologica si sono attivate per un programma di immersioni in tutto il territorio nazionale. Nel Golfo di Napoli e a Pescara le prime immersioni del nucleo Carabinieri, filmate da Roberto Rinaldi, hanno consegnato immagini spettacolari, bisogna però continuare per avere un quadro più completo e una risposta dagli scienziati.

Abbiamo preparato un appello, che abbiamo condiviso con altre prestigiose Associazioni e Fondazioni, per chiedere alle commissioni di Camera e Senato di continuare il loro lavoro affinché gli iter legislativi delle leggi sulla difesa dell’ambiente siano portati avanti e si concludano. Le Commissioni hanno rallentato il loro lavoro e quindi sono rimaste bloccate importanti leggi sull’ambiente come la Salvamare. Consapevoli che i focolai del Covid 19 si sono sviluppati proprio nei luoghi dove l’inquinamento è più presente, abbiamo chiesto al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di inserire nella Task Force per la seconda Fase dell’emergenza Coronavirus degli esperti di temi ambientali. Ci sembra lapalissiano, nel momento in cui dobbiamo fare le  scelte su come proseguire il cammino nostro e dell’umanità, chiedere aiuto agli esperti, agli scienziati e a coloro che da anni ci indicano la strada per affrontare i cambiamenti climatici, per sviluppare un’economia circolare e per vivere senza intaccare  la preziosa biodiversità del nostro Pianeta. Sono problemi che bisogna affrontare subito, perché, come ha detto lo studioso israeliano Yuval Harari, le decisioni che si prendono oggi incideranno sul futuro nostro e dei nostri figli, e fra un anno non ci sarà la possibilità di cambiare le scelte. Finora non abbiamo avuto risposta ai nostri appelli; si parla giustamente di come rimettere in moto il motore produttivo che ha dato la possibilità agli uomini e alle donne di accedere a beni essenziali per la sopravvivenza, ma insieme vorremmo una visione più lungimirante del nostro futuro.

Inoltre non si ferma la nostra attività di educazione ambientale nelle scuole con i Delfini Guardiani delle Isole e negli Istituti Nautici rigorosamente online. Sono lezioni molto creative, fatte dai nostri biologi, esperti e animatori per catturare l’attenzione e mantenere alta la passione per il mare dei nostri giovani allievi.

Non sono sufficienti le leggi e la ricerca scientifica, se non sviluppiamo una vera cultura del mare e dell’ambiente sarà tutto vano.

Il nostro augurio è che in futuro si potrà dire che il tempo del Covid ha dato la spinta a un cambiamento di rotta dell’intera umanità. Ognuno deve fare la sua parte, consapevole che la posta in gioco è altissima e che riguarda il futuro del Pianeta. Avanti tutta!

di Rosalba Giugni

CONTROVIRUS | Io e il Covid

Enzo Soresi, Primario emerito di Pneumologia Ospedale Ca’Granda – Niguarda

Enzo Soresi, medico e Primario emerito di Pneumologia Ospedale Ca’Granda – Niguarda, ha fatto parte del consiglio direttivo di Braincircle Italia fin dalla fondazione, e continua a collaborare con noi, tanto che sul sito potete trovare un suo articolo proprio sul coronavirus. Qualche settimana fa è stato colpito dalla malattia in modo pesante, e ne è appena uscito. Questa è la sua testimonianza. 

Stavo benissimo fino a martedì 24 marzo e il Coronavirus non mi faceva paura, anche perché avevo da poco pubblicato Come ringiovanire invecchiando, un libro in cui spiego che il segreto per una vecchiaia “sana” è quello di ridurre l’infiammazione attraverso percorsi alimentari adeguati e attività sportiva moderata. E mi attengo scrupolosamente alle mie indicazioni. Se il mio stile di vita non ha impedito al virus di attecchire dentro di me, il fatto di essere in condizioni psicofisiche ottimali mi ha certamente aiutato nell’affrontare la malattia e uscirne vincitore.

Dunque, torniamo al 24 marzo. Mi sveglio sentendomi in forma, ma a metà giornata comincio a rilevare delle contratture muscolari alla schiena, vengo assalito da brividi intensi con febbre intorno ai 38,5 gradi. Come uno tsunami imprevisto, Il tutto si consuma in pochi minuti. Sono un medico, e non mi faccio illusioni. “È arrivato” mi dico. E credo di sapere anche come: in seguito a un paziente che ho visitato, seppur con le dovute cautele, pochi giorni prima.

La mia autoterapia

Il 18 marzo avevo letto del protocollo del virologo francese Didier Raoult, che proponeva l’uso di un antimalarico in commercio, più eventualmente un antibiotico a base di azitromicina. Avevo già prescritto telefonicamente questa terapia a tre pazienti che mi avevano contattato telefonicamente e che effettivamente in pochi giorni si erano sfebbrati. Iniziai quindi con fiducia ad adottare tale protocollo terapeutico, ancora in fase di validazione in uno studio controllato che il prof Raoult sta conducendo su oltre 3.000 pazienti a Marsiglia, ma già comunque applicato in numerosi ospedali italiani.

Per sicurezza, associai calcieparina come prevenzione al rischio ormai noto di embolie polmonari che questo virus induce. Ricordavo inoltre studi di immunologia degli anni ’70 in cui si dimostrava che gli anticoagulanti rallentano la duplicazione dei virus per cui ero doppiamente convinto della opportunità di iniziare questa terapia. Sicuro di guarire, gestivo la febbre, molto aggressiva, con modeste dosi di paracetamolo e attendevo fiducioso senza mai sentirmi veramente preoccupato di non farcela “in fondo non è altro che un’influenza” pensavo.

Il ricovero ospedaliero

Giunto al settimo giorno, vedendo che la febbre era ancora molto elevata, su sollecitazione di un caro collega pneumologo, mi decido finalmente a richiedere il ricovero presso l’Ospedale San Gerardo di Monza nel sospetto di una infezione polmonare. La decisione di farmi ricoverare è stata sicuramente molto sofferta, in quanto di fronte a me c’era l’incognita di ciò che avrei dovuto affrontare: casco di ossigeno, intubazione, broncoscopia?

Entro nello spettrale Pronto Soccorso dell’Ospedale San Gerardo di Monza il 1 aprile alle quattro del pomeriggio, e in pochi minuti mi eseguono tampone faringeo, emogasanalisi arteriosa, esami ematologici e radiografia del torace. Efficientissimi, mi dico, ma poi rimango per otto ore in un’attesa assurda senza nessun segno da parte di medici o infermieri, e la mia baldanza comincia a venire meno. Mi vengono in mente i filmati che ho visto in televisione, la gente che muore nei corridoi degli ospedali attendendo di essere visitata, la mostruosa solitudine di essere lì solo, potenzialmente contagioso e dunque tenuto a distanza da chiunque. Sentendomi in buone condizioni cliniche non ho mai pensato di potere morire in quella circostanza ma l’angoscia maggiore era il nulla che stava avvenendo in quelle ore.

Finalmente a mezzanotte, quando ormai avevo perso ogni speranza, arriva un giovane medico del Pronto Soccorso che mi conferma l’opportunità del ricovero: sono Covid-19 positivo e ho una infezione polmonare per fortuna allo stadio iniziale. Mi trasferiscono in un reparto di geriatria e lì rimango in parcheggio 48 ore continuando ad assumere tachipirina e ossigeno somministrato con le cannette nasali. Una inerzia che mi preoccupa e che mi mette, io medico, dalla parte dei pazienti che si sentono impotenti in una struttura in cui sono solo dei numeri. Ma per mia fortuna non sono un paziente impotente, ho un santo in paradiso (e lo dico letteralmente): il collega pneumologo Sergio Harari con cui per parecchi anni ho collaborato presso la Divisione pneumologica Piazza di Niguarda si è attivato per chiedere un mio trasferimento in malattie infettive, dove finalmente approdo alle 11 di venerdì 3. Immediatamente cambia lo scenario, in poco tempo valutano la necessità di darmi ossigeno con ventimask Venturi a flussi di circa quattro litri al minuto e, poiché dagli esami ematologici risultavano segni di infezione polmonare in atto, viene iniziata la terapia antibiotica endovena. Sono fortunato, perché da pochi giorni proprio grazie ad Harari e altri colleghi pneumologi era stato inserito il cortisone nel trattamento del Covid-19, allo scopo di spegnere la cascata infiammatoria indotta dalle citochine flogogene (la più importante delle quali è l‘interleuchina 6). Già dopo la prima somministrazione di cortisone endovena il quadro clinico cambia in modo imprevedibile, la febbre scompare, in pochi giorni mi sento come guarito, tanto da chiedere le dimissioni domenica di Pasqua dopo 11 giorni di ricovero.

È importante mettere a fuoco la presa in carico nel reparto di malattie infettive. Già al mio ingresso nella stanza noto nell’altro letto la presenza di una paziente con casco dell’ossigeno e in condizioni respiratorie assai critiche e mi rimane impresso lo stretto monitoraggio clinico di questa donna, ricoverata 4 settimane prima in condizioni preterminali. Se hanno tirato fuori lei da una situazione così grave, penso, con me sarà un gioco da ragazzi. Pur mancando la presenza di un “primario” nelle successive visite, quello che mi ha dato grande tranquillità è stata la assunzione di responsabilità di ogni singolo componente del reparto nelle sue funzioni operative. Ricordo un particolare aneddoto riguardo all’esame di emogasanalisi arteriosa che gioca un ruolo fondamentale nei pazienti respiratori. Si tratta di valutare con un prelievo arterioso, assai doloroso e tecnicamente difficile, le percentuali di ossigeno e anidride carbonica su cui poi vengono impostati i flussi dell’ossigeno. Purtroppo, nei giorni precedenti non erano riusciti nel reparto geriatrico a inserirmi un adeguato catetere per cui vivevo con grande preoccupazione ogni annuncio di prelievo, in media due al giorno. Appena l’ago tocca l’arteria per penetrarvi, si sente come una frustata diffusa a tutto il braccio e si ha per un attimo la sensazione di perdita di coscienza. Alle 2 di notte, nel reparto di malattie infettive dove ero ricoverato da due giorni, compare un giovane infermiere, un adorabile puffo di nome Stefano, chiamato apposta dall’infermiera di turno perché il più esperto in questa tecnica di inserimento dei cateteri arteriosi. Sedutosi vicino al letto iniziò a inserirmi con estrema sicurezza il catetere arterioso ma purtroppo il vaso si piegò immediatamente e il tentativo fallì. Senza perdersi d’animo mi disse “dottore, mi faccia fare il secondo tentativo” in pochi secondi riuscì perfettamente a incannularmi l’arteria e da quella notte non ebbi più la preoccupazione dei prelievi arteriosi, in quanto il catetere è rimasto pervio e operativo fino alla mia dimissione.

Riflettendo sulla mia esperienza ritengo che una presa in carico del malato a 360 gradi, come è avvenuto nel mio caso, sia la vera chiave dal punto di vista psicologico che libera da molte preoccupazioni in quanto ci si sente inseriti in percorso bene disegnato il cui obiettivo è la guarigione del paziente e a cui tutto il personale sanitario partecipa con pari responsabilità oltre che sensibilità nel rapporto con il malato.

Una seconda considerazione, dal punto di vista emozionale, riguarda il rapporto con il mondo esterno. Moglie, figli, amici, colleghi e nel mio caso pazienti, formano come una rete di sostegno in cui si è sospesi ma che dà un grande conforto e in questo caso il cellulare con il suo caricatore diventa una protesi indissolubile.

Il rientro a casa

Pensavo che mi sarei ripreso rapidamente. Ma sono passati 10 giorni dalla dimissione, sono ancora in terapia con modeste dosi di cortisone e ogni giorno ritengo di fare piccoli passi in avanti, in realtà il quadro clinico, pur essendo tutti i parametri biologici normalizzati, è imprevedibile, ci si sente come passati attraverso uno tsunami. Sono debolissimo, con accessi di stanchezza inaspettati, tanto che passo molte ore del giorno a letto, senza forze. Talvolta alle 5 del pomeriggio vengo assalito come da uno stato di disperazione, ai limiti di una condizione psicotica non motivata da nulla, considerando che il peggio è passato e sono in compagnia di mia moglie in assoluta serenità…

Qui mi è venuto in aiuto Youtube. Ascoltando gli approfondimenti in rete di professionisti di varie specialità, vengo a conoscenza che questo virus ha una elettività per il sistema nervoso centrale e periferico con possibilità quindi di indurre varie condizioni patologiche, in alcuni casi addirittura crisi epilettiche. Ne è una prova la perdita di gusto e olfatto che viene segnalata da moltissimi pazienti, e talvolta può essere persino l‘unico sintomo. Che fare? La mia esperienza, quella che vorrei trasmettere a tutte le persone che sono state ammalate, o hanno un familiare o amico convalescente, è che bisogna aspettare con fiducia che la tempesta passi, senza avere fretta. E in questo periodo è fondamentale nutrirsi bene, con molte proteine animali e vegetali, idratarsi tanto, riposare sistematicamente, fare piccole passeggiate, magari con pochi gradini, più volte al giorno. In fondo si tratta solo di ridare vita ai nostri mitocondri stressati da questa tempesta biologica. Quando scrissi il libro Mitocondrio mon amour nel 2015 avevo ben capito la fondamentale importanza che questi batteri hanno per il nostro benessere, fornendoci ossigeno e nutrimento, ma solo dopo questa botta di Covid-19 ho toccato con mano la loro fondamentale importanza.

Alcune considerazioni finali

Dalla mia esperienza di medico e di paziente, la “ricetta” per uscire dalla crisi sarebbe di proteggere gli anziani (e anche i giovani) debilitati, cioè affetti da altre patologie, mentre il virus dovrebbe circolare liberamente nel resto della popolazione come in realtà sta avvenendo in gran parte del mondo, in modo da produrre l’immunità di gregge. E nel contempo, come già avviene in Germania, intervenire al domicilio dei malati con tempestività, prevedendo un ricovero in quarta giornata in caso di persistenza febbrile in modo da evitare i ricoveri tardivi con insufficienza respiratoria, candidati alle terapie intensive e all’elevato rischio di morte.

Insomma penso che nei prossimi mesi lo scenario cambierà e ci abitueremo a convivere con il Covid-19 forti di esperienze e programmazioni sanitarie più consapevoli oltre che di presidi terapeutici più efficaci.

Concluderei con una riflessione paradossale. Il 19 aprile ho compiuto 82 anni e 57 anni di professione medica, e ora che l’ho superata considero questa mia esperienza con il Covid un ulteriore arricchimento sia a livello professionale che di potenziale paziente, quale mi sono sempre considerato.

di Enzo Soresi

CONTROVIRUS | Difficili previsioni con i coronadati

di Antonietta Mira
Professore di Statistica, Director Data Science Lab, Università della Svizzera italiana e Università dell’Insubria

Statistici ed epidemiologi si confrontano ogni giorno con la richiesta di fare previsioni sull’evoluzione della pandemia. Ma per fare previsioni servono dei buoni dati e dei buoni modelli. Se anche abbiamo dei buoni modelli ma i dati a disposizione non sono affidabili le previsioni che ne ricaviamo non saranno, purtroppo, attendibili. Abbiamo un mantra fra gli statistici: garbage-in, garbage-out: se, in un modello, entrano dati-spazzatura non possono che uscirne previsioni-spazzatura.

I dati sul Coronavirus riportati dalle fonti ufficiali soffrono di diverse forme di distorsione legate a come sono raccolti e ai tempi stessi di raccolta, che hanno spesso ritardi non uniformi per le varie regioni e per le varie categorie. 

È di pochi giorni fa la notizia che Wuhan ha corretto i dati dei decessi aggiungendo 1.290 casi: è una correzione enorme, del 50%, che è stata fatta quando, finita la fase emergenziale, le autorità hanno iniziato a fare delle verifiche incrociate e a includere i decessi avvenuti nelle abitazioni, gli errori fatti dagli ospedali nel riportare i decessi, e li hanno incrociato con i dati dei crematori, delle prigioni, delle case per anziani.

In Ticino mi risulta che i decessi per COVID-19 in case di riposo nel Canton Grigioni riferiti ad anziani residenti in Ticino, siano attribuiti al Ticino. Una prassi che in tempi di coronavirus fornisce una immagine distorta della diffusione geografica della pandemia. Per non parlare dei tempi di racconta. In Ticino, ma lo stesso vale per la Lombardia, i dati che vengono comunicati ogni mattina alle 8 fotografano, per alcune variabili, la situazione in essere circa 24 ore prima. Per altre, la situazione riportata è quella di alcuni giorni precedenti, fino a 3 o 4. Questa asincronia che varia da Paese a Paese, e nello stesso Paese, è diversa a seconda della fase in cui ci si trova, crea problemi di distorsione della fotografia che riceviamo. E questo a sua volta genera difficoltà a livello di previsione. Tutto ciò è comprensibile: in una fase emergenziale in un ospedale ci si preoccupa di salvare vite umane e non tanto di riportare alle autorità competenti quante persone sono decedute.

Poi c’è il problema di che cosa si conta, ovvero le questioni definitorie. Come mi spiega mio padre che è medico, tutti moriamo per arresto cardiaco ma non per questo nelle statistiche ufficiali l’arresto cardiaco è considerata la prima e l’unica causa di morte, ovvero con il 100% dei decessi riportati a questa causa. Ecco, una distinzione simile ma più sfumata andrebbe fatta fra decesso per coronavirus o con coronavirus. Se la causa primaria di morte è l’infezione da COVID-19 e non ci sono altre co-morbidità, ovvero altre patologie concomitanti, allora si tratta di un decesso per COVID. Nei pazienti anziani però spesso il decesso avviene perché intervengono varie cause concomitanti. In questi casi il decesso è con COVID. E allora è chiaro che qui entrano degli elementi di discrezionalità nel riportare, o addirittura nel verificare, se un decesso va annoverato o meno nelle statistiche ufficiali. Per esempio, i tamponi post-mortem in Germania non vengono fatti. In Italia non venivano fatti durante l’emergenza, solo recentemente hanno iniziato a farne. Se si fanno tamponi post-mortem il numero dei decessi attribuiti a COVID-19 aumenta.

Anche la questione del numero dei tamponi è rilevante: più tamponi si fanno, più casi positivi emergono. E il numero di tamponi fatti varia da Paese a Paese a seconda della disponibilità dei tamponi ma anche di politiche e protocolli adottati e, all’interno di uno stesso Paese, varia da momento a momento. Per esempio, in Italia per dichiarare un caso guarito, il protocollo dell’ISS richiede che vengano fatti 2 tamponi con esito negativo. È chiaro che di questo bisogna tenere conto quanto si valuta se i tamponi fatti sono tanti o pochi rispetto alla popolazione, da un lato, e rispetto ai nuovi casi emersi dall’altro. In Svizzera invece l’Ufficio federale della Sanità Pubblica considera un paziente guarito, nel caso avesse sintomi lievi e quindi probabilmente a casa in quarantena, dopo almeno 10 giorni dall’insorgere dei sintomi più 48 ore trascorse senza sintomi e non è richiesto un tampone negativo di verifica. Le 48 ore diventano 2 settimana se i sintomi erano più seri. Ma la cosa sta cambiando, perché da ieri tutte le persone con sintomi influenzali dovranno fare un tampone. Come si è detto, il numero dei tamponi eseguiti dipende anche dal numero di tamponi disponibili e dalla capacità di processarli in tempo utile. Durante la fase emergenziale mancavano i tamponi, e i laboratori per analizzarli davano risposte in tempi lunghi, anche di alcuni giorni. Oggi in Ticino mi dicono per esempio che il laboratorio dell’Ente Ospedaliero Cantonale è in grado di processarli nel giro di circa 8 ore. Ma stanno per arrivare metodi automatizzati per processare tamponi in pochi minuti, e nel contempo sono già disponibili esami del sangue che comportano una lettura rapida ed economica degli anticorpi presenti in chi ha contratto il COVID-19 e lo ha superato.

Ma la domanda a cui tutti vorrebbero una risposta è se i dati ci possono aiutare a capire a che punto siamo dell’epidemia.

Con Anthony Ebert, uno studente australiano post-doc dell’USI che collabora a un progetto finanziato dal SNF portato avanti da me insieme a un collega della Harvard School of Public Health, abbiamo costruito grafici che possono aiutare a capire dove ci troviamo lungo il difficile cammino dell’evoluzione della pandemia. I grafici, che chiamiamo ”spaghetti plot”, sono una descrizione dello status quo e non si avventurano in previsioni perché con i dati disponibili è molto difficile farne.

Vediamo prima uno di questi spaghetti plot, quello per la Mondo: ogni spaghetto rappresenta un Paese. Quando clicco play parte una sorta di film dove gli attori sono i vari Paesi.

Come sono costruiti gli spaghetti plot? I dati che alimentano i grafici sono presi da fonti ufficiali: Ufficio Federale della Sanità Pubblica, Protezione Civile Italiana, Organizzazione Mondiale della Sanità. Sull’asse delle ascisse, quello orizzontale, riportiamo, giorno per giorno, il totale dei casi positivi confermati fino a quel giorno. Confermati significa che è stato fatto un tampone e l’esisto positivo del tampone è stato confermato dalle autorità della sanità pubblica di quel paese. Sull’asse delle ordinate, quello verticale, abbiamo invece la somma dei nuovi casi positivi nei sette giorni precedenti. Il tutto è rappresentato su scala doppiamente logaritmica. Significa che sugli assi invece di avere 1, 2, 3 etc. abbiamo 1, 10, 100, 1000. Questo cambiamento di scale è utile perché altrimenti la crescita, che inizialmente è esponenziale, sarebbe troppo rapida per essere visualizzata bene. Inoltre, una crescita esponenziale appare come una retta se la rappresentiamo in un grafico su scala logaritmica; e gli scostamenti da un andamento lineare sono di più facile lettura.

Quando in un Paese l’epidemia si va spegnendo, nel nostro grafico vedremo la linea corrispondente piegare verso il basso. Significa che il numero dei nuovi positivi dell’ultima settimana rallenta la sua crescita e questo vuol dire che stiamo uscendo dalla fase critica. Quando il numero dei nuovi positivi si ferma la curva inizia a scendere verso il basso verticalmente. Questo fino ad ora è successo in modo marcato e determinato per la Cina e per il Sud Corea.

La Cina è il primo Paese che compare sul grafico quando cliccate su play. In effetti in Cina abbiamo il primo caso identificato il 7 gennaio. Una prima flessione avviene attorno al 10 febbraio, poi una flessione decisa è evidente il 19 dello stesso mese.

Con un doppio click sul nome del “Paese” che compare nella legenda sulla destra, potete isolare uno o più Paesi di interesse. Se passate il mouse sullo “spaghetto” potete visualizzare il giorno e le coordinate di quel punto: come detto, abbiamo:

  • X = casi totali positivi a quella data dall’inizio della pandemia
  • Y = casi totali positivi per la settimana precedente

Dopo lo “spaghetto” della Cina parte il Sud Corea con il primo caso identificato ufficialmente il 22 gennaio. La Corea del Sud mostra una prima flessione attorno al 7 marzo e un calo deciso nei primi giorni di aprile. Le misure di contenimento dell’epidemia che sono state attuate in Cina sono difficili da mettere in pratica nei paesi occidentali. Il Sud Corea invece ha messo in atto delle politiche di tracciamento dei casi con tecnologie digitali e “tamponamenti” massicci. La app Corona Science ticinese e quella Immuni italiana vanno in questa direzione, ma il loro utilizzo non sarà reso obbligatorio.

Oltre al grafico per il mondo abbiamo un grafico per la Svizzera, uno per l’Italia e uno per l’Europa.

Al 18 aprile emerge chiaramente per esempio che in America siamo ancora in una fase di crescita esponenziale: i punti, giorno dopo giorno, si trovano praticamente allineati lungo una retta. Mentre quasi tutti i cantoni e tutte le regioni italiane hanno iniziato la loro discesa verso il basso. Ci auguriamo succeda presto anche per i vari cantoni, per la Svizzera e per il mondo intero.

Aspettiamo che questo trend si consolidi e alimentiamolo con i nostri comportamenti virtuosi per ripartire con la serenità e la sicurezza che tutti aspettiamo.

In attesa di un vaccino contro il COVID-19, che ci permetterà di vivere senza ansia, sto preparando, insieme al filosofo ed epistemologo italiano Armando Massarenti un vaccino mentale, un libro dal titolo La pandemia da coronadati. Ecco il vaccino che ci spiegherà come sopravvivere al diluvio di informazioni spesso contrastanti e sempre angoscianti, nella speranza che una volta vaccinati, i lettori saranno in grado di vincere le altre sfide del digitale grazie agli anticorpi acquisiti durante la lettura.

di Antonietta Mira

Grafici:

Mondo
https://anthonyebert.github.io/COVID19data/covid19_original.html

Svizzera
https://anthonyebert.github.io/COVID19data/covid19_original_Switzerland.html

Italia
https://anthonyebert.github.io/COVID19data/covid19_original_Italia.html

Lombardia, Piemonte, Ticino e alcuni altri cantoni messi a confronto
https://anthonyebert.github.io/COVID19data/covid19_original_Ticino.html

Europa
https://anthonyebert.github.io/COVID19data/covid19_original_Europe.html

CONTROVIRUS | Ora basta!

di Umberta Telfener,
psicologa clinica

Adesso basta! Siamo stufi di essere trattati come bambini ed è ora che una rappresentanza dei cittadini possa dire la sua.

Se rispetto alla riapertura del Paese stiamo – forse – per entrare nella fase due, a livello psicologico sono almeno tre le fasi molto diverse che stiamo vivendo e in questo momento la rabbia e la paura la fanno da padroni. Mi vado a spiegare.

C’è stata una prima fase di stupore e comune vicinanza, una prima fase – alla notizia della letalità del virus – in cui ci siamo tutti stretti gli uni agli altri con disciplina. Si disquisiva sulla lezione che il virus ci stava insegnando, si imparava a stare da soli, a centrarsi, a mostrare ottimismo e solidarietà. Si inneggiava alla natura che stava riprendendosi il mondo, tutti insieme contro un nemico comune che identificavamo fuori dalla porta di casa. Fuori c’era la catastrofe e noi pensavamo al mondo roseo che avremmo costruito poi: una strategia generativa e adattativa per affrontare il pericolo.

È subentrata poi una seconda fase di incantesimo di quotidianità o sindrome da tana, in cui la sensazione è stata quella di svegliarsi ogni giorno allo stesso giorno, di essere diventati monadi chiuse nel guscio. Circolava la preoccupazione che si stesse agendo in modo frenetico dando per scontate le premesse sul funzionamento del virus, premesse che non sono mai state verificate/confutate. Azioni e proposte che aumentavano i divieti pur restando sempre all’interno dei nove punti (caro lettore risolvi il gioco che ti propongo e capirai di cosa sto parlando).

Unire tutti i nove i punti con quattro linee rette continue senza mai alzare la penna

Si è cominciato a parlare dell’errore umano nella cura e contemporaneamente si è regrediti nel ventre materno, rassicurati dallo stare a casa, al confino, con diminuite responsabilità, con una buona scusa per ridurre gli stimoli e ricadere in abitudini sempre uguali, anche un po’ noiose. Certamente ipnotiche. Protetti, al calduccio. “Anche solo aprire il portafoglio è già faticoso” mi ha detto qualcuno. In questa fase la paura per alcuni è stata quella di morire, molti altri l’hanno esorcizzata con la routine.

Siamo ora nella terza fase psicologica, quella in cui immaginiamo di ripartire e abbiamo paura di tornare a lavorare nel mondo. Dobbiamo ritornare alla vita normale, ma cos’è normale ora, dopo questa iniezione di iper-realtà che il virus ci ha proposto? Abbiamo giustamente paura che le nostre ipotesi di un mondo diverso verranno deluse e ci si riproporrà la solita e conosciuta frenesia, senza riuscire a trovare un nuovo equilibrio. C’è una grande incertezza sul futuro, c’è disorientamento. Abbiamo perso l’illusione rassicurante che qualcuno si stesse occupando di noi e questo ci fa paura: è meglio immaginare che qualcuno sappia cosa sta facendo! Ma non lo pensiamo più, le 40 task force, i 240 consulenti aumentano l’incertezza anziché darci fiducia. Abbiamo ancor più perso ogni illusione comprendendo che il depauperamento del sistema sanitario ha – come al solito – arricchito le tasche di pochi, che il sistema territoriale nella Sanità (quello della Toscana, dell’Emilia Romagna e del Veneto, per intenderci) offre maggiori garanzie di intervento capillare rispetto a quello ospedaliero ed è più efficace, costa solo di più. Più di prima sappiamo di dover fare i conti con i vizi e le corruzioni di chi siamo, dobbiamo scendere dall’altare e ritrovarci nella polvere. Sono subentrati l’insofferenza, la paura, mentre le variabili di dubbio sono rimaste le stesse. Si sono perse l’idealizzazione e le speranze in un mondo migliore, senza che ci sia stata ridata la responsabilità della nostra vita: non riusciamo – per come veniamo trattati dal governo – a riprendere la vita nelle nostre mani.

Siccome faccio la psicologa, da anni sono abituata a cercare soluzioni ai problemi esistenziali che i pazienti mi portano. Anche oggi propongo alcuni possibili pensieri per non rimanere nella paura.

TRAMUTARE IL SOSPETTO IN FIDUCIA: le ricerche confermano che un clima di fiducia porta a un maggior numero di scambi interattivi e permette di cooperare, di funzionare meglio insieme. Una piccola notazione: la fiducia non si “ha” ma si “dà”, fino a prova contraria; è cioè un atteggiamento, un investimento nel mondo, nell’altro e nella relazione, implica un salto nel buio, una rinuncia al controllo e alla sicurezza. La fiducia dobbiamo come prima azione darla a noi stessi, assumendoci la responsabilità per il nostro vivere.

AGIRE VERSO UNO SVILUPPO SOSTENIBILE: uno sviluppo economico compatibile con la salvaguardia dell’ambiente. Significa imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta, organizzandoci in maniera dignitosa ed equa per tutti, senza distruggere le risorse naturali. Significa pensarci interdipendenti con il mondo, con la natura e tra noi. Si tratta di abbandonare un modello lineare e semplice, generalizzato, scientista, per abbracciare la complessità e la complementarietà dei punti di vista, che funzionano su scala locale in maniera aperta, flessibile e dinamica. Non imposizioni che provengono dall’alto, ma la partecipazione responsabile di ogni cittadino nel suo piccolo.

PENSARE IN PICCOLO E DAL BASSO: i giornali già ci dicono di singole situazioni locali di eccellenza, potrebbero aumentare e fare una differenza. Si è istituita la spesa sospesa, la possibilità in alcuni supermercati di pagare una spesa virtuale per chi ne ha bisogno. Alcuni quartieri hanno organizzato cene di quarantena in cui i ristoranti della zona portano a casa il cibo in modo da non chiudere e non licenziare il personale. Alcuni municipi stanno organizzando iniziative molto interessanti e solidali con la partecipazione attiva dei cittadini. Le comunità religiose e le organizzazioni non governative distribuiscono mascherine, disinfettante, cene e conforto ogni giorno, inventando soluzioni veloci per stare dalla parte dei deboli. Sempre più persone si attivano per dare una mano e fare la differenza attraverso la cooperazione.

ASSUMERE UN ATTEGGIAMENTO ETICO: etica non vuol dire la disposizione a fare le azioni giuste, non il “tu devi, tu non devi”, “io devo”, non l’etica come giudizio morale di qualcuno che dal di fuori sa meglio di noi. Le persone l’etica la incorporano con i loro atteggiamenti, le loro scelte, le azioni che mettono in atto, il linguaggio che utilizzano. Ci dobbiamo ricordare che ogni volta che agisco nel qui e ora non solo cambio io ma cambia anche l’universo perché l’atteggiamento etico che propongo lega in maniera inseparabile il soggetto e i suoi comportamenti a tutti gli altri.

Il mio maestro, Heinz von Foerster, fisico, epistemologo, filosofo della scienza di grande fama, mi ricordava sempre che in ogni momento siamo liberi di agire verso il futuro che desideriamo e sosteneva che B sta meglio quando A sta meglio. Teniamolo in considerazione!

di Umberta Telfener

CONTROVIRUS | Igiene dei sentimenti

di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano

Ci sentiamo per la prima volta fragili e minacciati. La tranquilla routine assicurata a molti dallo Stato sociale e dall’Economia dei consumi è stata, da un giorno all’altro, abolita da un decreto caduto dall’alto. Siamo in guerra – ci è stato detto – e come in tempo di guerra non vale la legge comune, ma lo stato d’eccezione. Ordiniamoci nella mobilitazione totale: alcuni al fronte, nella prima linea, altri nelle retrovie, per assicurare i servizi essenziali, la maggioranza reclusa nei rifugi domestici (almeno quelli che ne dispongono): isolati ma connessi, per ascoltare i bollettini di guerra, con la loro litania funerea e l’appello ai buoni sentimenti.

Realtà o realtà percepita? Vissuto o rappresentazione? Non mancano i buoni consigli degli psicologi, profusi da ogni emittente televisiva, radiofonica, elettronica, cartacea, i medici dell’anima, non meno agguerriti dei medici del corpo. Datevi una regola quotidiana, per non cadere nella nevrosi della spontaneità impedita e nella depressione dell’abbandono al proprio ego. Concentratevi sulle piccole cose e le necessità primarie, createvi una routine, delle abitudini fisse, per non smarrire il senso del tempo e del suo scorrere uguale. Curate i rapporti interpersonali e recuperate il senso di vicinanza tra genitori e figli, costretti in una clausura minacciosa e non priva di pericoli. Leggete un libro (già, da quanto tempo non leggo un libro per intero? Sarò ancora in grado di farlo? E poi, ne ho veramente voglia?), ricucite relazioni di cui avete perso traccia (tanto ci sono le tecnologie a facilitarvi il compito), ecc. Coltivate le piccole virtù: pazienza, parsimonia, ingegnosità tecnica, gentilezza, empatia, oppure, se siete obbligati a farlo, le virtù cardinali della fortezza, della prudenza, della temperanza, della giustizia. Dopo tutto la crisi è anche un’occasione, e chissà se non usciremo migliori, anziché peggiori, dalla prova? Insomma, non basta curare l’igiene del corpo, ma è anche più necessario avere una regola d’igiene della mente o (come si diceva un tempo, e ora a stento solo i preti si ricordano di dire) dell’anima.

L’aspetto che più mi colpisce, in questo psicodramma collettivo, è proprio la distanza tra le parole e le cose. Anzitutto la scelta di un termine improprio (guerra) per definire la cosa (pandemia), con l’inevitabile corollario retorico che esso si porta dietro: obbedienza, patriottismo, sacrificio, caduti, paura, coraggio, eroismo, fronte, nemico, traditore, falsa propaganda, ecc. E, in secondo luogo, il profluvio comunicativo, il rumore dissonante con cui ci si sforza di riempire l’effettivo vuoto in cui siamo subitamente precipitati, il silenzio che non sappiamo affrontare. Eppure, se spegniamo la televisione e ci affacciamo alla finestra, la realtà percepita, non quella rappresentata, la sensazione che ci trasmettono le cose, è proprio l’abbassamento del volume dei suoni e delle voci, l’assenza di fastidio e di invadenza del rumore, persino (se si è in luoghi che lo consentono) la migliore qualità dell’aria, la pace e il silenzio. Aristotele diceva che questa non diretta corrispondenza tra parole e cose non deve stupirci, perché le parole significano i nostri sentimenti, mentre le cose affettano i sensi. Il vero esercizio quotidiano, la autentica igiene della mente, a cui questa drammatica pandemia ci richiama è dunque in un recupero della capacità di ascoltare il silenzio, di misurare le parole e l’ansia della comunicazione, per ritrovare una misura umana dei nostri discorsi, una corrispondenza più diretta tra il dire e il sentimento che in esso si esprime. Maestri di questa sapienza – lo sappiamo – erano i monaci, i solitari, sulle cui spalle ha poggiato per secoli la virtuosità cristiana. Solo quando la parola promana dalle profondità del silenzio, quando la voce si fa canto (non della natura, ma dello spirito), essa acquista un potere di edificazione e di illuminazione della socialità. Un filosofo morale neo-aristotelico, teorico del comunitarismo, Alasdair MacIntyre, in conclusione della sua disamina della crisi del linguaggio morale, nel fondamentale libro After Virtue (1981), non esitava ad invocare (non immemore forse dei propri trascorsi marxisti), come possibile storico rimedio alla sordità comunicativa del tardo capitalismo, l’avvento congiunto di un nuovo Trockij e di un nuovo San Benedetto!

Se il discorso del filosofo americano di origini scozzesi poteva suonare utopistico e provocatorio (e intendeva forse esserlo), il suo richiamo alla necessità di restituire senso al linguaggio della morale, in cui si esprimono i sentimenti, è quanto mai opportuno, nel clima sospeso che stiamo vivendo. Si dice che dobbiamo uscire migliori dalla battaglia contro il virus. Sappiamo in realtà che ne usciremo più impoveriti e più incattiviti (i segnali non mancavano del resto anche prima). I richiami retorici al risveglio delle energie e delle italiche risorse patriottiche nel dopoguerra non suonano del resto di buon auspicio. È la solita esaltazione degli spiriti vitali, della distruzione creatrice delle forze economiche del capitalismo, a prendere realmente voce in questi appelli. Il cinismo del buon senso popolare ha sempre trovato consolazione in un concetto più modesto: chi muore giace e chi vive si dà pace! Un grande filosofo e un Giusto del Novecento, il cecoslovacco Jan Patočka, invocava la solidarietà degli scossi, la viva memoria della sconfitta del bene e della sua volontà di rivincita nel polemos tragico della storia, come risposta al cinismo dell’uomo comune. Ma la prova (per quanto dura) a cui siamo sottoposti in questo tempo non ha la tragica grandezza e vastità che dovettero affrontare i nostri avi, e quel richiamo a una concreta solidarietà assume contorni più modesti e alla nostra portata.

Quella di cui abbiamo bisogno è maggiore sobrietà e capacità di riserbo e di silenzio. Qualcuno potrebbe azzardare anche di pudore, se pensiamo al grado di volgarità e sfrontatezza a cui si era ridotta la nostra comunicazione pubblica prima di questa provvidenziale (?!) pandemia. Dovremmo esercitarci in privato a una maggiore attenzione ai nostri sentimenti e alle parole che cercano (non sempre in modo fedele e adeguato) di esprimerli. Dovremmo imparare a distinguere quanto di naturale e quanto di risentito si è depositato in essi col tempo e l’abitudine.

Non siamo ancora riusciti (come nazioni e come popoli) a liberarci degli stereotipi e degli odii che le vecchie generazioni ci hanno trasmesso. Il risentimento più che la memoria dell’esempio e l’elaborazione del lutto, è il suggeritore di gran parte del discorso pubblico e della retorica politica contemporanea. Come un riflesso di tale sentimento distorto, la aggressività e la violenza si sono riversati anche nel linguaggio personale, nella comunicazione sociale dei singoli. Ce ne lamentiamo, ma non sappiamo rinunciare facilmente a questa pronta e facile rivalsa della nostra frustrazione. Un piccolo esercizio quotidiano: pensare a quale sia il nostro sentimento più costante, il “basso continuo” su cui moduliamo la nostra personale “melodia” discorsiva. Pensare a quanto di naturale e personale e quanto di abituale e posticcio vi si è sedimentato. Trovare le giuste parole per esprimere queste sfumature del sentimento e queste variazioni dell’umore. Tacere ciò che va taciuto e provare a dire ciò che va detto, e che forse non siamo mai stati capaci di dire. Disciplina del sentimento e del linguaggio: forse qualcosa di migliore, in ciascuno, si può ancora trovare e riavviare.

di Amedeo Vigorelli

CONTROVIRUS | Insegnamento a distanza

di Gian Carlo Cocco, docente universitario e consulente di management

La chiusura delle scuole e delle università, a seguito dell’epidemia in atto, con la conseguente sostituzione dell’insegnamento tradizionale con quello a distanza o telematico, rappresenta un’alternativa giustamente considerata l’unica possibile, per non giungere al blocco totale dell’istruzione dei giovani. Molti osservatori e studiosi la considerano addirittura un’opportunità che occorre incrementare in quanto rappresenta la formazione del futuro.

Per contribuire a chiarire il dibattito in corso che coinvolge non solo gli studenti e i docenti, ma anche, in modo comprensibilmente coinvolgente, i genitori, proponiamo alcune considerazioni sull’insegnamento telematico alla luce dei più recenti contributi delle neuroscienze nel campo dell’apprendimento.

Prima di tutto occorre accennare al vasto impiego della tecnologia telematica e informatica a supporto dei processi di insegnamento. L’erogazione può avvenire tramite interventi interattivi tra docente e discente, oppure tramite interventi predisposti che possono essere usufruiti autonomamente dai discenti.

Come influisce la formazione a distanza nei processi di apprendimento degli studenti? È ipotizzabile che l’insegnamento a distanza possa progressivamente sostituire l’insegnamento tradizionale? Dal punto di vista dei genitori e dal punto di vista civile e sociale la risposta a questi quesiti è essenziale per non cadere preda di mode che possono originare inconvenienti per il futuro dei giovani, al di là dello stato di necessità attuale e delle opportunità indubbiamente offerte dalla telematica.

Gli ultimi sviluppi delle neuroscienze forniscono interessanti e innovative indicazioni su come funziona l’apprendimento e su come imparare più velocemente attraverso tecniche, supporti, procedimenti e accorgimenti basati sui meccanismi neuronali e sul funzionamento delle reti cerebrali che presidiano i processi di memorizzazione.

Una prima fondamentale considerazione è la dimostrazione scientifica che il cervello umano, a partire dalla nascita, non è una tavola vergine di cera sulla quale gli input sensoriali e cognitivi imprimono il sapere, ma racchiude in sé, fin dalla gestazione, un insieme di strutture cerebrali precostituite, ereditate nel corso dell’evoluzione, in grado di attivarsi con modalità interattive a contatto con gli adulti. Imparare significa focalizzare e sfoltire: durante l’infanzia i circuiti cerebrali che non vengono utilizzati sono progressivamente eliminati.

Nel suo libro, Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Stanislas Daheane dimostra che il cervello umano è ancora superiore all’intelligenza artificiale perché impara meglio di qualsiasi macchina. Questa superiorità deriva dal fatto che il cervello infantile è dotato di una serie molto ampia di facoltà, come ha dimostrato il neuroscienziato Howard Gardner con il suo paradigma sulle intelligenze multiple. Osservando il cervello di un neonato è possibile rilevare strutture cerebrali ben organizzate predisposte ad acquisire i contenuti dei principali campi del sapere: tutti i circuiti cerebrali di un adulto risultano già presenti. Sarebbe fondamentale che i sistemi di insegnamento facessero tesoro di queste scoperte e si riuscisse ad anticipare notevolmente l’insegnamento fin dalla prima infanzia (ovviamente con metodologie appropriate).

Per comprendere come agisce l’apprendimento anche dopo l’infanzia e fino all’età adulta. è indispensabile analizzare come agisce la memoria, o meglio come agiscono le memorie di lavoro, autobiografica, semantica, procedurale ed emotiva.
Le diverse memorie riescono ad agire in forma integrata soprattutto quanto si apprende. La memoria di lavoro registra un’informazione, questa informazione, se opportunamente rinforzata, viene trasferita alla memoria episodica, da qui avviene il passaggio alla memoria semantica. La memoria semantica può trasferire alla memoria procedurale certe operazioni in modo da renderle automatiche. In sostanza, senza memoria non può esserci apprendimento.

Occorre rivalutare il ruolo della memoria per rendere i processi di apprendimento efficaci e stabili. Imparare a memoria è caduto in disuso, ma per secoli è stato un esercizio mentale fondamentale. Quando una mente riesce a rievocare con precisione sequenze di informazioni, fornisce una base di manovra a tutti i temi connessi e rende gli schemi mentali più facilmente utilizzabili (chi riuscirebbe ad elencare la progressione delle Alpi italiane senza fare ricorso alla filastrocca: “MA COn GRAan PEna LE RECA GIU’ ”?).

Molti neuroscienziati sostengono che la memoria è un sistema rivolto al futuro e non al passato. Il suo contributo non è di “guardare indietro”, ma di elaborare ipotesi su quello che potrebbe accadere per non essere colti di sorpresa. Si tratta della strategia mentale che suggeriscono gli insegnanti efficaci. Reiterando le informazioni, i sistemi mnemonici aiutano il cervello a tenerle a mente e a utilizzarle nel momento opportuno.

Le neuroscienze hanno ampiamente confermato le intuizioni di molti filosofi, l’essere umano è progettato per connettersi con gli altri. Le strutture sociali del cervello sono di gran lunga prevalenti: si pensi alle formidabili capacità di lettura dello sguardo, delle espressioni del viso e della postura che possiedono tutti gli esseri umani fin dall’infanzia. Nel cervello umano si sono sviluppati meccanismi per rilevare le intenzioni altrui insieme a meccanismi per celare le stesse intenzioni. Tutti i processi comunicativi sono realizzabili tramite il supporto dei processi emozionali che pervadono ogni forma di socialità. Nel rapporto interpersonale diretto le emozioni indirizzano la socialità e la socialità influenza le emozioni. In un rapporto a distanza, anche con i più efficaci mezzi visivi e auditivi, questo fenomeno si affievolisce in modo essenziale.

I comportamenti imitativi, indotti dai neuroni specchio, diffusi in molte aree della corteccia cerebrale e del sistema limbico del cervello, consentono la realizzazioni di diverse manifestazioni umane tra le quali, fondamentali fin dalle prime fasi dell’esistenza, vi è l’apprendimento. L’imitazione è un mezzo molto potente per imparare e necessita di vicinanza fisica che non può essere sostituita dal contatto virtuale. I neuroni specchio consentono di entrare nei panni degli altri solo se siamo in contatto diretto.

L’insegnamento svolto a diretto contatto attiva schemi ripetitivi di elaborazione mentale basati su un processo empatico, difficilmente riproducibile tramite comunicazioni a distanza. Questi schemi possono essere rinforzati anche da un impegno autonomo, il quale però ha necessità di un riscontro successivo che scaturisce sempre dalla vicinanza tra docente e discente. Questa vicinanza consente di realizzare il “condizionamento vicario”, un processo di influenzamento basato su stimoli positivi che si riverberano su due aspetti fondamentali:

  • la curiosità, che apre il fronte all’esplorazione mentale tramite un coinvolgimento attivo e continuativo (Jaak Panksepp definito la curiosità l’emozione primaria dei mammiferi e degli esseri umani);
  • l’accettazione dell’errore, la disponibilità a sbagliare che origina il più efficace e il più rapido dei processi di trasferimento e apprendimento, il quale scaturisce solo a seguito del rassicurante contatto umano con il docente. Questo contatto è in grado di risvegliare e tenere desta l’attenzione focalizzata, insostituibile per imparare.

Emerge che l’insegnamento a distanza è un potente supporto all’apprendimento basato sul contatto umano, ma non può sostituirlo. Nei casi di assoluta necessità come quello attuale si rivela un’accettabile alternativa, ma occorre prestare la massima attenzione per non scivolare nell’illusione avveniristica che i mezzi informatici e telematici possano diventare una panacea.

Se l’educatore è una specie di vice genitore, proviamo a immaginare un genitore che alleva i propri figli telematicamente…

di Gian Carlo Cocco

CONTROVIRUS | Due donne per il vaccino

Viviana Kasam,
Presidente BrainCircle Italia

Si comincia, forse, a intravedere la luce in fondo al tunnel. Mentre i Governi in tutto il mondo preparano le norme per un progressivo rientro alla vita attiva e alla normalità, o almeno a una forma di normalità vigilata, prende corpo la speranza di arrivare, in tempi relativamente brevi, a terapie efficaci e forse anche a un vaccino. In molti ospedali si stanno sperimentando con risultati promettenti farmaci diversi, perché diversi sono gli approcci alla comprensione dell’eziologia del virus. E sono più di cento i laboratori in tutto il mondo nei quali si sta alacremente lavorando a un vaccino, anche se si contano sulle dita di una mano quelli che hanno qualche seria speranza di successo, almeno nel prossimo futuro.

In Israele sembra essere in dirittura d’arrivo la sperimentazione su un vaccino messo a punto dal Migal Galilee Research Institute: nasce dall’esperienza con il coronavirus aviario, sul quale l’azienda sta lavorando da quattro anni. In America, presso il Medical Center dell’Università di Pittsburgh un team di ricercatori guidati dall’italiano Andrea Gambotto sta lavorando a un vaccino veicolato non via iniezione, ma grazie a un cerotto: nasce dalla ricerca del 2003 per vaccino contro la SARS, che venne abbandonato perché il virus scomparve da solo.

Ma ancora più vicina al traguardo sembra essere la ricerca italiana. Coordinate da Pietro Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato del gruppo IRBM di Pomezia, due donne stanno lavorando contro il tempo. Sarah Gilbert, che dirige lo Jenner Institute, uno dei più prestigiosi centri di vaccinologia al mondo presso l’Università di Oxford e Stefania Di Marco, a capo della Advent Team del Gruppo IRBM, sono in procinto di avviare in Inghilterra la fase 3 di sperimentazione del nuovo vaccino AntiCovid19 su un gruppo di 550 volontari, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dell’Agenzia Inglese per il Farmaco. 

Entro giugno l’inoculazione sui volontari dovrebbe essere terminata, e per l’autunno si dovrebbero conoscere i risultati. Se confermeranno le aspettative, il vaccino potrebbe essere disponibile all’inizio del 2021.

Come è riuscita la joint venture Jenner/IRBM a tagliare i tempi?

“Da 18 anni lo Jenner Institute studia la famiglia dei coronavirus” spiega Di Lorenzo. “E in questo momento sta testando, in fase 2 di sperimentazione in Arabia Saudita, un vaccino per un coronavirus molto simile al SARS-CoV-2, quello della MERS. Questo ha consentito a Sarah Gilbert e al suo gruppo di sintetizzare in un paio di settimane il gene della proteina spike del Covid 19 (ovvero non il virus stesso, ma una porzione  sintetica e innocua del suo genoma), non appena i cinesi nei primi giorni di gennaio hanno isolato e sequenziato il virus. Ma come iniettarlo nell’organismo umano in modo innocuo in modo da pre-attivare il sistema immunitario che non riconosce il Covid 19, non avendolo mai incontrato prima? Noi dell’IRMB disponiamo di un formidabile cavallo di Troia. È l’adenovirus, il virus dei banali raffreddori, depotenziato affinché non possa replicarsi nell’organismo. Questa piattaforma che abbiamo realizzato sette anni fa grazie al genio di Riccardo Cortese, biologo molecolare di fama internazionale e nostro partner, ci ha consentito di realizzare il vaccino anti Ebola. Caricato al suo interno con la proteina spike sintetizzata e depotenziata, l’adenovirus consente di far entrare il gene della proteina spike nell’organismo umano e attivare il sistema immunitario, in modo che qualora in futuro si dovesse contrarre la malattia, ci sarebbero pronti gli anticorpi per contrastarla”.

Una storia di sapore omerico, che ha consentito di tagliare drasticamente i tempi: poiché sia la piattaforma dell’adenovirus che il gene della proteina di coronavirus sono già stati approvati, rispettivamente nel vaccino contro l’Ebola e in quello contro la MERS, ai ricercatori è stato consentito di saltare le fasi 1 e 2 della sperimentazione umana e partire direttamente con la fase 3.

Questo in Inghilterra… e in Italia?

“Abbiamo già contattato il Ministro della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità, l’Aifa, il Ministro per la Ricerca e gli organismi competenti per ottenere una fast track anche da noi: mi sono sembrati interessati e collaborativi” spiega Di Lorenzo.

Intanto l’azienda si sta attrezzando per decuplicare la capacità produttiva e cercare partner istituzionali. Certo, è una scommessa coraggiosa. Le incognite sono molte, basti pensare al buco nell’acqua del vaccino contro la SARS. Non potrebbe succedere che il SARS-CoV-2 scompaia da solo come il suo predecessore, vanificando il vostro lavoro e il vostro investimento?

“Realizzare un vaccino efficace è importante non solo per questa emergenza, ma anche per quelle future. Non illudiamoci, anche se questa pandemia dovesse recedere spontaneamente, con i coronavirus la storia non è finita qui: mutano e diventano più aggressivi. Ma se troviamo il modo di veicolare un vaccino efficace, in 15 giorni sarà possibile attualizzarlo: così come abbiamo fatto utilizzando per il coronavirus l‘esperienza con la MERS e con l’Ebola. E come avviene ogni anno con il vaccino dell’influenza”.

Non teme la concorrenza? Realizzare un vaccino ha costi altissimi: e il rischio di essere battuti sul tempo è un problema reale…

“È utile che ci sia più di un vaccino. In una situazione di pandemia, sarebbe un beneficio disporre di vaccini con modalità diverse di azione e somministrazione” è la salomonica risposta di De Lorenzo. 

De Lorenzo è uno che di scommesse e di rischi calcolati se ne intende, come testimonia la storia della sua azienda, un piccolo miracolo italiano. I laboratori della IRBM facevano parte della rete produttiva della Merck in Italia, ma nel 2009, dopo la fusione con la Schering Plough, la multinazionale farmaceutica americana decise di chiudere le attività italiane, scorporando solo la struttura di Pomezia, per motivi di immagine e perché in quei laboratori l’anno precedente era stato scoperto l’Isentress, il farmaco più innovativo per l’AIDS. Di Lorenzo, che allora era un consulente della Merck, fu incaricato di cercare una cordata di industriali italiani interessati a rilevare il Centro, ma senza successo. Decise allora di impegnarsi in prima persona per tenere in vita quel fiore all’occhiello della ricerca farmaceutica italiana, concordando con i 180 ricercatori e i sindacati un drastico progetto di ridimensionamento, in vista però di un graduale ritorno alla produttività piena. Una scommessa che ha avuto successo: dai 25 ricercatori assunti subito nel 2009, la IRBM in dieci anni è tornata a impiegarne, tra interni e consulenti, 250, di cui i due terzi sono donne; collabora con centri di ricerca e Università in tutto il mondo, ed è un modello di gestione in un settore difficile come quello farmaceutico. Oggi è specializzata in progetti di ricerca integrati nel campo chimico farmaceutico per l’identificazione di nuovi agenti terapeutici sia di origine chimica che biologica e nella implementazione di una libreria europea di composti chimici, molecole che non hanno trovato un preciso utilizzo, ma vengono catalogate e rese disponibili per la ricerca nazionale. Uno straordinario e prezioso archivio per costruire il quale Di Lorenzo è impegnato da anni, perché proprio dalle molecole “orfane” possono scaturire importanti risultati terapeutici. E vanno quindi salvate.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Affrontare l’ansia nella fase 2

Michele Mattia,
Psichiatra e psicoterapeuta, Docente Università dell’Insubria, Presidente ASI-ADOC

In tutta Europa si sta parlando di progressivo allentamento delle misure di isolamento, ma se da un lato tiriamo un sospiro di sollievo, dall’altro uscire dalla campana protettiva che ci separa dal resto del mondo può essere causa di ulteriore ansia. A quali pericoli andiamo incontro? Gli altri, sono “sicuri”?

Vorremmo tutti riprendere la vita di prima e dimenticare queste settimane, ma l’epidemia da coronavirus ci ha confrontati con l’angoscia della morte, una paura atavica dell’uomo, che il virus ha riportato alla luce, assieme a profonde insicurezze: non facile da debellare rapidamente. Un virus che non vediamo, non possiamo toccare, ma può infettarci attraverso qualsiasi persona. E noi possiamo infettare gli altri!

L’idea della morte è difficile da gestire in un mondo che tenta in tutti i modi di sopprimerla, di allontanarla (si muore sempre più fuori casa), mediatizzando all’infinito l’eterna giovinezza.

La psicanalisi e la psicologia insegnano che l’angoscia della morte, della fine della nostra vita, bisogna affrontarla e sconfiggerla.

Come possiamo fare, se possiamo farlo?

In primis, dobbiamo tornare ad integrare la morte come parte intrinseca della vita. Lo facevano i nostri avi, che, come mostra l’iconografia, spesso tenevano sulla scrivania un teschio, un memento mori, per ricordarci che siamo di passaggio.

E per renderci consapevoli che ogni giorno che viviamo è un giorno in più di vita e non un giorno in meno, come scrivevano i primi filosofi greci!

L’approccio al concetto della vita attiva fortemente le emozioni corrispondenti determinando la perdita della cognitività, ovvero della capacità di pensare, nutrendo fortemente l’angoscia di questi giorni.

Il coronavirus dovrebbe riportarci ad un concetto diverso della vita. La vita come profonda essenza del significato dell’esistenza umana.

Esistenza umana forte, stimolante, coraggiosa, ma fugace, fragile, debole, da proteggere e da accudire, in tutte le sue tappe.

In questa situazione fortemente esitante e che sta togliendo le sovrastrutture protettive che ci eravamo creati, le autorità sono obbligate ad intervenire, dando delle norme ma ogni misura di contenimento può avere l’effetto collaterale di aumentare il senso di insicurezza e l’ansia. Decisioni troppo restrittive amplificano l’angoscia e inducono la paura dell’altro, dell’untore.

Nel circuito dell’ansia il primo elemento è lo stato di allarme: questo l’abbiamo. Il secondo è la minaccia: noi tutti potremmo essere contagiati, anche in casa. Il terzo è il pensiero catastrofico del tipo ‘andrà sempre peggio’: fa scattare la paura di restare senza cibo, la diffidenza sociale verso l’altro.  

L’epidemia non è la guerra, ma come la guerra è qualcosa che sfugge al nostro dominio e mette in crisi la società dell’ipercontrollo.

Siamo bombardati da continue misure anti-contagio, volute per tutelare la parte più debole, gli anziani, gli immunodepressi, i diabetici, le persone ipertese, i cardiopatici, gli obesi, ecc.

Misure che proseguiranno con la progressiva riapertura, rischiando di farci varcare quel sottile confine, da preoccupazione legittima ad ansia, quando la nostra mente continua ad essere parassitata dalla paura di essere infettati.

Per recuperare una vita piena e positiva, è fondamentale superare la dimensione dell’ansia patologica, quella che blocca il comportamento, l’azione, quando torneremo al lavoro e alla nostra vita “normale”.

Proteggiamoci, e proteggiamo gli altri, ma senza ossessività.

La pandemia è stata grave, e vivremo ancora le sue conseguenze, anche nella cosiddetta fase 2, perché ci ha colti impreparati, a livello medico-sanitario, organizzativo e individuale.

Tutto ciò che è improvviso, imprevisto e inaspettato, impatta fortemente sulla nostra razionalità togliendole i parametri ai quali affidarsi.

Dopo due mesi, possiamo affermare, però, di essere più preparati.

Conosciamo le misure protettive da seguire e i comportamenti da evitare.

Dobbiamo sempre di più pensare, in questi ultimi giorni di relativo isolamento, come pianificare il futuro, il recupero della nostra vita.

Bisognerà riflettere in modo evolutivo e attivo a cosa potremo e non potremo fare, a che cosa siamo pronti a rinunciare, a come tuteleremo i nostri figli e i nostri genitori.

A come tuteleremo Noi e gli Altri.

Ma anche a come riprendere la nuova normalità, forse più matura e meno arrogante di prima.

E approfittiamo anche per riflettere su questa esperienza, capire che cosa ci ha insegnato e sfruttare questo ultimo periodo di convivenza a tempo pieno per

recuperare un dialogo in famiglia, con i figli, con i partner, programmando insieme il futuro.

Cosa fare?

Come fare?

Innanzitutto, è importante uscire dall’individualismo che il senso di invincibilità della società opulenta e tecnologica ha veicolato, per passare al senso comunitario delle relazioni.

Recuperare la comunicazione familiare entrando in un ascolto più profondo dell’altro, domandosi dove ognuno di noi non presta sufficiente attenzione alle esigenze dei figli o del coniuge o del partner.

Freud nello scritto “Il disagio della civiltà” del 1929, affermava che l’uomo avrebbe dovuto rispettare e custodire tre elementi fondamentali.

Se lo avesse fatto avrebbe tratto protezione e forza.

Avrebbe rinforzato il proprio apparato psichico, le proprie emozioni, dando stimoli e sviluppo alla propria esistenza.

Attraverso questo il sistema dei neurotrasmettitori si sarebbe rinforzato.

Freud prima di diventare il padre della psicoanalisi aveva studiato la neurologia e nei suoi scritti si intravvedeva già la nascita delle neuroscienze, laddove preconizzava la plasticità neurale.

I tre elementi erano la Natura, il Corpo e le Relazioni.

L’uomo negli anni è diventato sempre più vorace, ancora più insaziabile di Cariddi, la Naiade fatta diventare mostro da Zeus.

L’ingordigia ha creato la società del consumismo sfrenato, del superfluo fatto diventare indispensabile, dello sfruttamento senza scrupoli delle risorse della Terra, dell’ambiente sempre più abusato e disgregato.

L’uomo è divenuto ancora più sfrenato di Erisittone, nominato anche da Dante nel Purgatorio, ed allora la Natura si è ribellata e si è ripresa il suo posto attaccando il corpo e inserendosi in una nuova epifania delle relazioni, del senso dell’umanità e dell’esistenza.

Recuperare, attraverso questa stravolgente e travolgente esperienza della fragilità dell’esistenza, dovrà e potrà agire sul ripensamento di ciò che veramente è indispensabile e di ciò che invece era, è e sarà sempre superfluo e, forse, inutile.

di Michele Mattia

CONTROVIRUS | SOS Isolamento

Umberta Telfener, psicologa clinica

Faccio la psicologa e continuo a lavorare con i pazienti via Skype.

Incontro chi si sente spaesato, in un tempo e in uno spazio dilatato come se quello che sta succedendo non fosse vero; chi segue le statistiche degli infetti e dei morti come si guardano siti porno, disapprovandosi senza riuscire a interrompere mai; ragazzi che cercano un litigio per poter sbattere la porta e uscire, anche solo sul pianerottolo; coloro che approfittano dello smart working per sperimentare qualcosa di insolito e rassicurante: una partita a Monopoli coi figli alle sette di sera di un giorno feriale. C’è chi finalmente si rilassa, non dovendo fare cose che non gli sono mai interessate abbastanza, che si sentiva in dovere di organizzare per dimostrare di essere socialmente adattato; chi esagera nell’annoiarsi e si perde tra briciole nel letto e sciatteria. Molte mamme si preoccupano giustamente dell’overdose di telefonino dei figli, altre esageratamente della mancanza di lezioni di scuola, non rendendosi conto che questa esperienza di convivenza forzata – se vissuta attivamente anziché subita – è terapeutica sia per i figli che per i genitori: permette di sperimentare un legame continuato nel tempo e nello spazio, per questo rassicurante e curativo. Incontro coppie che si ritrovano obbligate a stare vicine quando avevano finalmente imparato a vivere da separate in casa; riescono – date le circostanze – a tirar fuori e scambiarsi un affetto che avevano dimenticato; incontro amanti che trasgrediscono gli ordini per incontrarsi di notte. Alcuni approfittano della crisi per rallentare, per imparare la lezione che il virus ci obbliga a tener presente. Altri fanno finta che l’emergenza non esista e continuano a vivere senza consapevolezza come sono vissuti finora: sprecando un’occasione di crescita.

Incontro persone fobiche che soffrono la claustrofobia e accentuano il loro senso del dovere, altre più ossessive costrette a lasciar andare il mito del controllo a tutti i costi. Ai depressi manca la luce del sole sulla pelle e perdono energia, si scaricano come le pile; coloro che hanno problemi alimentari si trovano a cucinare come non ci fosse un domani e escono solo per comprare altro cibo.

Ognuna delle persone che sto incontrando ha scelto alla televisione un virologo/epidemiologo di fiducia, ha costruito con lui o con lei una sorta di relazione di attaccamento catartica, che purifica e rassicura, lo cerca e lo segue come fosse un nuovo fidanzato.

Psicologicamente questa emergenza è molto dura e le conseguenze si vedranno in seguito, ora siamo impegnati a resistere. Malgrado i rischi psicologici, la maggior parte delle persone ha risposto però molto bene – anche quelle più psicologicamente disturbate – e quasi tutti hanno tirato fuori le loro qualità più nascoste, la loro resilienza, la capacità di adattarsi a ciò che accade. La maggioranza di noi si è adattata in maniera ammirevole. 

L’isolamento al quale siamo costretti certamente ha cambiato le nostre vite e ci ha insegnato qualcosa di utile, ci ha fatto riscoprire pensieri, emozioni, comportamenti che avevamo represso per stare dietro agli impegni quotidiani.  Nel processo di adattarci alla crisi siamo inesorabilmente cambiati, anche se non ne siamo forse totalmente ancora consapevoli. Ora si tratta di mantenere i cambiamenti positivi anziché dimenticarli appena l’emergenza sarà finita.

Quali sono i consigli che uno psicologo può dare per aiutare a vivere meglio il confinamento in casa? Per mantenere un livello tollerabile di quotidianità in questi tempi di crisi, propongo una serie di suggerimenti che può essere utile seguire, e qualche pericolo da evitare.

  • VARIARE: non fare tutti i giorni le stesse cose, si rischia di perdere la propria creatività, di cadere nella routine, di annoiarsi e di instaurare di nuovo un ritmo troppo simile a quello che avevamo nella vita mondana pre-crisi.
  • CURARE IL PROPRIO ASPETTO: è dannoso restare sporchi e sciatti in una casa disordinata. Dobbiamo curare noi stessi e lo spazio in cui siamo rinchiusi per renderlo accogliente e piacevole. Abbiamo bisogno di stare al meglio per tenere alta l’energia vitale oltre che la stima personale. Potrebbero poi arrivare video-chiamate sorpresa… teniamoci pronti!
  • APRIRE ALLE POSSIBILITÀ: non è utile lamentarsi e criticare. Si entra in uno stato d’animo negativo, si blocca l’energia, si cade nel giudizio, si esclude la gratitudine.   Facciamo uno sforzo quotidiano per vedere il bicchiere mezzo pieno, cercando ogni giorno qualcosa di positivo, magari segnandolo in un diario 
  • LIMITARE L’NFORMAZIONE: rende passivi prendere in considerazione troppi dati, guardare troppe serie, troppi stimoli visivi, usare troppo il computer tutto il giorno, facendosi nutrire da stimoli che provengono da fuori. Più utile suddividere il tempo telematico del lavoro e quello dello svago e frammezzarli con altro.
  • GIOCARE e CONDIVIDERE: consiglio di approfittare per stare coi bambini in maniera attiva, generativa, creativa, proponendo giochi e attività insolite; sgridando il minimo necessario, coccolando il più possibile. Cucinare insieme sperimentando per esempio ricette etniche, inventare una storia in cui ognuno gioca il ruolo di un personaggio, proporre una cena in costume, invitare a scrivere un racconto al quale ognuno aggiunge un capitolo.
  • FARE SPORT: ginnastica, yoga, movimento; non usare le scuse che usavamo nella vita di tutti i giorni per rimandare. Uscire – con tutte le precauzioni del caso – almeno per la spesa, per il giro del palazzo, per sentire l’aria sulla pelle.
  • PRENDERSI TEMPO PER SÉ: magari facendo qualcosa che non avevamo mai fatto prima, certamente impegnandosi a fare quelle cose nella lista mentale che si è accumulata nella vita, magari solo per accorgerci che non sono impegni così ambiti. Prendere tempo per ipotizzare quali cambiamenti vorreste apportare alla vostra vita perché sia più soddisfacente e più coerente con il vostro attuale sviluppo.
  • E poi una volta alla settimana concedersi di TRASGREDIRE TUTTE LE REGOLE CHE HO PROPOSTO e fare ASSOLUTAMENTE e SOLO quello che ci va.

Un ultimo commento: la società iper-moderna aveva rimosso la morte; ora non si fa altro che parlare di decessi, temerli, piangerli, raccontarli. Mai come ora si è costretti ad affrontare un lutto individuale e collettivo. Mi vengono in mente le fasi del lutto illustrate dalla psicologa Elisabeth Kubler-Ross – famosa tanatologa – e che possono essere applicate anche al lutto collettivo che stiamo fronteggiando: la prima è quella del diniego, viene poi la rabbia, la negoziazione, la depressione, e infine si accetta ciò che sta accadendo. 

Voi, cari lettori, in che fase siete?

di Umberta Telfener

CONTROVIRUS | Terrorismo e Covid-19

di Sofia Barbarani, giornalista free-lance

Mentre il mondo si blinda per evitare il dilagare del coronavirus, si ripresenta con rinnovato vigore la minaccia dei gruppi estremisti. Dall’ISIS in Medio Oriente ai movimenti di estrema destra in Europa, il coronavirus può diventare un’opportunità per destabilizzare ulteriormente lo status-quo?

Quando iniziarono a girare le prime notizie sul Covid-19, lo Stato Islamico (Isis) emanò una dichiarazione per invitare i propri seguaci a non intraprendere viaggi verso l’Europa, per compiere attacchi terroristici. Nella newsletter del gruppo, Naba, si sollecitavano i seguaci a lavarsi le mani e a non “entrare nella terra dell’epidemia”.

Il mondo intero è rimasto stupito nello scoprire come anche organizzazioni quali l’ISIS possano invocare uno sforzo collettivo per evitare l’espansione del virus. Ma per un gruppo che ha perso centinaia di combattenti e seguaci in bombardamenti, esecuzioni e in prigione, queste sollecitazioni vanno interpretate più come un tentativo di mantenere il potere, che una reale preoccupazione per la salute collettiva.


In realtà in Iraq questa settimana ci sono stati due attacchi dell’ISIS. È molto probabile che i gruppi terroristici approfittino del caos in luoghi dilaniati dalla guerra, come Iraq e Siria, per sferrare attacchi-lampo su obiettivi militari e civili; l’instabilità politica di questi Paesi andrà sicuramente a loro vantaggio.

Allo stesso modo Boko Haram, il gruppo affiliato all’ISIS nell’Africa occidentale, ha intensificato gli attacchi e rafforzato la sua cooperazione con al-Qaeda per approfittare del momento di fragilità a livello sociale. Più a nord in Egitto, si registra un aumento dell’attività dell’Isis nella penisola del Sinai, che si può anch’essa ricollegare al Covid-19.

Se la dichiarazione dell’ISIS di evitare i paesi infetti ha sicuramente diminuito di molto il rischio di attacchi su larga scala in Europa, i lunghi periodi di isolamento potrebbero portare individui legati a pericolose ideologie a radicalizzarsi on-line ed entrare sempre di più nella spirale dell’estremismo, spostando gli attacchi su obiettivi “facili” come ospedali o case di cura, dove a causa dell’emergenza c’è superaffollamento e i controlli sono più difficili.

In Europa i gruppi di estrema destra stanno creando una narrativa che descrive il Covid-19 come un “virus straniero”, per dare forza alla loro visione secondo la quale i pericoli provengono da nemici esterni. In un momento in cui l’Europa assiste a un’ascesa dei nazionalismi di destra, questo potrebbe portare ancora di più a vedere l’altro come una minaccia. Il mese scorso negli Stati Uniti l’utilizzo da parte del presidente Donald Trump del termine “virus cinese”, ha portato a un aumento degli attacchi a sfondo razzista contro gli asiatici americani.

In Europa, l’allarme antisemitismo è palpabile. La comunità ebraica, come la Storia insegna, rischia di assumere nuovamente il ruolo di capro espiatorio dei movimenti di estrema destra, che hanno già cominciato ad accusare le organizzazioni ebraiche di utilizzare volontariamente il virus per destabilizzare la società. Ma paradossalmente anche Israele non è esente dagli attacchi d’odio dell’estrema destra. Video che circolano sui social-media mostrano ebrei ultra-ortodossi ripresi mentre sputano e tossiscono sui poliziotti israeliani, chiamandoli “assassini” e “Nazisti” a causa delle misure di isolamento della popolazione e chiusura dei luoghi di culto, che contrastano con i severi dettati della pratica religiosa più estrema.

Se appare quindi chiaro che estremisti e gruppi terroristici vedono nel virus un mezzo per raggiungere i loro obiettivi, che cosa possiamo aspettarci nel prossimo futuro? Mentre attacchi su larga scala in Europa sembrano improbabili per il momento, la situazione in Africa e Medio Oriente potrebbe offrire la sponda a un’affermazione dei movimenti più radicali, favorita anche dalla crisi economica che si prospetta nei Paesi Arabi a causa del calo del prezzo del petrolio e alla mancanza di sistemi sanitari efficienti. Una situazione che potrebbe diventare incandescente sfruttando il malcontento della popolazione.

E per quello che riguarda la ormai prossima – si spera – Fase 2? Da un lato il progressivo ritorno alla libertà di movimento potrebbe rimettere in circolazione fanatici in cerca del loro momento di gloria. Dall’altro però, si prospetta ovunque la messa in atto di capillari sistemi di sorveglianza che sicuramente rendono più difficile portare a termine azioni terroristiche. Lo vediamo dai filmati già in rete.

In Corea del Sud, uno dei Paesi più avanzati tecnologicamente per quanto riguarda il tracciamento, la popolazione è stata dotata di un QR code da scaricare sul cellulare, che segnala lo stato di salute di ogni individuo. Luce verde per chi è sano, luce gialla per chi è sano ma è stato in contatto con ammalati, luce rossa per chi è positivo. Dovunque si voglia andare, dal metrò, alla farmacia, al supermercato, persino per entrare nei condomini, per non parlare di aeroporti e luoghi pubblici, è necessario mostrare il QR code, e se non si ha la luce verde non si entra. Telecamere e droni controllano i movimenti, e, in caso di malattia, la memoria del telefono viene scaricata e fornisce preziosi elementi di tracciamento dei contatti.

A Hong Kong i nuovi arrivati vengono forniti di braccialetti elettronici per sorvegliarli e assicurarsi che non violino la quarantena, mentre Singapore ha utilizzato con successo la CCTV per tenere sotto controllo la pandemia. La Cina non è da meno con i suoi droni stile “Grande Fratello”, che hanno mantenuto un occhio vigile sulla quarantena dei civili. A Pechino gli algoritmi di riconoscimento facciale individuano i pendolari che non indossano la maschera in modo corretto, mentre la Sin Bet israeliana sta utilizzando i dati dei cellulari per rintracciare chiunque sia entrato in contatto con il virus. Comprensibilmente, questo aumento della sorveglianza desta preoccupazione nei sostenitori dei diritti civili in tutto il mondo, ma può rivelarsi un’arma efficace contro il terrorismo.

Se da una parte il Covid-19 può fornire alle organizzazioni estremiste e ai gruppi terroristici una rinnovata speranza e uno scopo, dall’altra serve agli Stati come presupposto per raccogliere i dati personali delle persone, mentre lavorano, socializzano o passano il tempo libero a casa, e questo, potrebbe rendere più facile identificare e bloccare delle possibili minacce terroristiche.

Security vs privacy: è il tema etico più discusso in questo momento, e vale non solo per la pandemia ma anche per il terrorismo.

Sofia Barbarani è una giornalista free-lance che si occupa di terrorismo e conflitti in Medio Oriente, e ha lavorato in particolare in Iraq e Siria, coprendo l’ascesa e la caduta dell’Isis. Collabora con prestigiose testate internazionali come The Telegraph, The Economist, Thomson Reuters Foundation, The Washington Post, The Guardian, The Times and Al Jazeera English. Ha recentemente moderato un webinar su Covid 19 e terrorismo, organizzato dal Euro-Gulf Information Center, e al quale hanno partecipato: Caroline Varin, Senior Lecturer in Security and International Organisations at Regent’s University London, Director and Co-founder of Professors Without Borders (Prowibo); Peter R. Neumann, Senior Fellow, International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR); Yan St-Pierre, CEO and Counter-Terrorism Advisor, Modern Security Consulting Group (MOSECON); Mitchell Belfer, President, Euro-Gulf Information Centre (EGIC).

di Sofia Barbarani