CONTROVIRUS | Radiografia del male

di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

Vorrei consigliare la lettura di due testi di Agnes Heller che considero importanti per la formazione degli insegnanti e per la didattica sui Giusti che stiamo impostando con la Commissione didattica di Gariwo per le scuole italiane.
Si tratta de La bellezza della persona buona (Diabasis), una raccolta di saggi, e Il male radicale (Castelvecchi editore), testo che presenta i suoi ultimi interventi.

Agnes Heller ha il grande merito non solo di avere prodotto una riflessione filosofica originale e di avere sempre affrontato nella sua vita i temi fondamentali del nostro tempo, ma anche di essere sempre molto chiara e sintetica.
Quando l’ho incontrata per l’ultima volta a Milano, in una cena dopo una conferenza che avevamo organizzato insieme al nostro amico Francesco Cataluccio ai Frigoriferi Milanesi, mi era sembrata una ragazzina per lo spirito e la forza che metteva nella sua conversazione. Eravamo tutti stanchi per una giornata ricca di impegni, ma Agnes Heller continuava a farci domande e ci trasmetteva tutto il suo amore per i giovani.
“Se non vi seguono – rideva in un tavolo di insegnanti e di intellettuali – non dipende da loro, ma dal vostro linguaggio. Siete voi che non siete adeguati”.
Mi raccontò di avere qualche anno prima salvato in mare un suo collega molto più giovane che nuotava con lei a Capri, e ripensare oggi alla sua fine nel lago di Balaton, dove è annegata nuotando da sola, come faceva normalmente, mi suggerisce l’essenza della sua filosofia di vita.
Fino alla fine bisogna sempre osare e lasciare agli altri, anche il giorno prima della scomparsa, il meglio di sé.

Penso per esempio a un grande pianista jazz come Bill Evans, che una settimana prima della sua morte, il 15 agosto del 1980, tenne al Keystone Korner di San Francisco una decina di concerti che non mi stanco di ascoltare perché rappresentano la sintesi della sua genialità musicale.

Agnes Heller continuò a scrivere e a fare bellissime lezioni fino alla fine senza essere mai malinconica. E anche il suo impegno di vita fu sempre coerente. Dalla sua adesione al marxismo critico, allieva del filosofo György Lukács, era passata alla battaglia antitotalitaria nel ’56 ungherese e nel ’68 segnato dall’invasione di Praga. E poi, tornata a Budapest, dopo avere insegnato a New York e in Australia negli anni del suo esilio, ha cominciato una battaglia importante in nome del cosmopolitismo contro il risorgere dei nazionalismi e i fautori della democrazia illiberale – come l’ungherese Victor Orban.

Agnes Heller immagina un viaggio in treno dalla stazione del bene al male radicale. Alla prima fermata non esistono i santi, ma persone che aspirano ad essere buone e che quando sbagliano sono capaci di ammettere i loro errori, senza nasconderli. Si muovono a partire dal principio socratico, secondo cui è meglio subire un torto piuttosto che commetterlo.
Sono le persone migliori e tutti noi possiamo essere come loro, perché è questo il bene possibile alla portata di ognuno.

La stazione successiva comprende l’uomo qualunque, che pure essendo in grado di distinguere il bene dal male, non lo fa, non sceglie il bene perché si lascia trasportare dalle passioni, oppure perché è spinto dal proprio interesse personale.
Probabilmente queste persone, se potessero ottenere tutto ciò che vogliono cercando di fare il bene, sceglierebbero certamente questa seconda strada. Sono persone oscillanti che molto spesso hanno un comportamento contraddittorio. Sanno bene cosa sarebbe giusto fare, ma poi fanno il contrario e provano anche un rimorso di coscienza.

Poi ci sono coloro che non si pongono alcuna domanda e che usano le altre persone per il proprio piacere e per il proprio tornaconto personale. Sono le persone che possiamo definire malvagie. Sono disponibili perfino ad uccidere, a commettere ogni di tipo di reato, per il loro fine egoistico. Penso che tutti noi avvertiamo una sensazione fisica di rigetto quando incontriamo persone nel cui volto possiamo leggere la cattiveria. Sono coloro che feriscono non solo un corpo, ma l’anima e la psiche delle persone. Le troviamo tra i bulli nelle scuole e nello sport, sui social e persino nell’arena politica: sono coloro che provano piacere nel disprezzare e umiliare gli altri con le parole e gli insulti.
Eppure non sono queste ancora le persone più pericolose per un ribaltamento della società poiché possono essere contenute e neutralizzate.

Il pericolo maggiore viene da coloro che teorizzano con le loro massime il valore del male e ci dicono: puoi uccidere, rubare, mentire, usare gli altri, sottometterli. Questi uomini, con ragionamenti sofisticati e parole ambigue, cercano di farci accettare la disumanità come unica via alla sopravvivenza e all’agire su questa terra.
Per certi versi sono peggiori non solo degli opportunisti, ma anche delle persone malvagie, perché iniettano magari con il sorriso, la seduzione, con un comportamento apparentemente rispettoso, il veleno ideologico nella società. Sono diabolici come Satana, sostiene la Heller, non perché commettono atti sbagliati, ma perché inducono gli altri a commetterli, persuadendoli che il male sia giusto.

Ecco perché quando appaiono nella società democratica individui, intellettuali, politici che dichiarano pubblicamente l’antisemitismo, usano parole di disprezzo verso le minoranze e i migranti, teorizzano l’odio, la superiorità dell’uomo sulla donna, disprezzano gli omossessuali, considerano legittimo il terrorismo, bisogna subito reagire. Possono essere l’anticamera di un messaggio pericoloso che invita la società a dare la caccia ai nemici. Non bisogna mai prendere alla leggera chi diffonde massime malvagie. Il salto di qualità avviene infatti quando si crea una società totalitaria dove si realizza un connubio tra valori malvagi (puoi uccidere), passione sadiche (il gusto di umiliare e di perseguitare l’altro) e una seduzione collettiva dove la malvagità diventa attrattiva e contagiosa.
È quello che la Heller definisce come il male radicale moderno. In questo caso una massima individuale malvagia si trasforma in una ideologia collettiva fino a diventare il fondamento di un sistema politico.

Agnes Heller fa i conti con le teorizzazioni di Hannah Arendt sulla banalità del male. Non le rigetta, ma a mio avviso rielabora il concetto.
Certamente in una società totalitaria esistono delle persone che seguono i carnefici per opportunismo, perché si astengono dal pensare, perché ubbidiscono agli ordini e a leggi ingiuste abdicando alla capacità di giudizio personale e alla coscienza. Ma questi comportamenti avvengono in un contesto dove è diventato legittimo uccidere gli esseri umani e dove prevalgono criteri morali che ribaltano i dieci comandamenti. La banalità del male è dunque una fuga dalla propria responsabilità che va studiata e analizzata, ma essa si manifesta sempre all’interno di un male radicale. Comunque, osserva la Heller, anche chi agisce senza pensare, quando si presta ad un omicidio di massa, commette un male che non è mai banale. Chi uccide senza pensare, ubbidendo agli ordini, anche se non convinto ideologicamente dalle massime malvagie, uccide comunque.

Per la Heller è interessante osservare, e qui sono le affinità con la Arendt, che anche chi teorizza le massime malvagie non è sempre un mostro o una bestia assetata di sangue. Si può essere portatori e diffusori di una ideologia che chiede la distruzione dell’altro e poi essere rassicuranti e vivere una vita quotidiana normale senza apparire sadici. Si può essere demoniaci nelle idee e non vivere da demoni. Come del resto non avere in testa idee malvagie e comportarsi da demoni.

Agnes Heller ragiona molto sulla dinamica del genocidio nella modernità, e coglie una differenza fondamentale con il passato. Era per esempio un valore eroico per i Greci distruggere Troia e annientare i suoi abitanti, come del resto lo era per i Romani a Cartagine o per gli ebrei sterminare nel deserto la tribù dei beduini di Amalek, considerati i nemici di Israele. Oggi invece un genocidio non è più considerato eroico, naturale e nemmeno necessario per la propria difesa come nell’antichità, perché facciamo riferimento al principio che tutti gli uomini nascono uguali e hanno senza distinzione il diritto alla vita e alla libertà. Abbiamo quindi dei parametri morali per giudicare.

Eppure questo ideale della modernità può risultare efficace o inefficace.
È efficace se gli uomini credono nella verità della massima, si assumono una responsabilità e agiscono o giudicano gli altri in conformità ad essa.
È soltanto uno slogan di facciata se c’è una adesione solo formale senza una reale applicazione nei comportamenti. Tanti sono i regimi che hanno sottoscritto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e poi commettono gravi crimini contro l’umanità.

E poi se anche la maggior parte degli uomini nascono liberi, molto spesso preferiscono non fare uso di questa libertà. Non è infatti detto che chi riceve il regalo della libertà rispetto alla condizione di epoche passate ne faccia poi uso. La libertà è sempre una scelta e come sottolinea la Heller è un fondamento che non fonda nulla.

Ma se abbiamo dei criteri per giudicare che non avevano gli antichi, perché il male radicale può abitare il cuore della modernità? La risposta per la Heller va ricercata nella nascita delle ideologie che ribaltano i valori e che sono alla base della nascita dei regimi totalitari.
L’ideologia è una sorta di immaginazione tecnologica. Qualcuno crea uno strumento di dominazione mettendo insieme briciole e frammenti di idee, concetti, religioni e filosofie e lo presenta come le Verità. Ciò che non rientra in questo corpo ideologico è considerato falso e pericoloso e deve essere ridotto al silenzio e persino annientato.

Tuttavia, quando parte questo meccanismo perverso, non si tratta solo di eliminare delle idee dalla circolazione, ma anche le donne e gli uomini che sono considerati portatori di concezioni sbagliate e che ostacolano così il trionfo della verità. Per questo motivo il pluralismo deve essere bandito e sostituito da istituzioni che implementino un pensiero unico. È questo il primo passo che porta alla persecuzione degli uomini e, nelle situazioni estreme, alla loro eliminazione.

Quanto spiegato dalla Heller lo possiamo vedere non solo nei regimi totalitari del passato, ma anche nei meccanismi perversi dei social. C’è spesso un piccolo guru che dopo avere creato una sua tribù di accoliti bombarda la rete con delle affermazioni perentorie che si presentano come la verità assoluta. Non è uno sprovveduto perché presenta le sue opinioni con una tecnica raffinata. Se qualcuno capita per caso in questo gruppo ed esprime un dubbio o un ragionamento sensato non riceve soltanto un rimprovero, ma viene indicato come un nemico e tutti i fan del guru gli vanno contro. Diventa fastidioso non solo per le sue osservazioni critiche, ma come individuo pensante, e per questo partono gli attacchi personali. Deve quindi adeguarsi ed è costretto, per non cadere in una gogna mediatica, a rimanere in silenzio. Altrimenti viene cancellato.

Per Agnes Heller Auschwitz è il simbolo del male radicale della modernità, un evento su cui noi dobbiamo continuare a ragionare e che si può sempre ripetere non nello stesso modo, ma in forme simili.
Lo è stato per il capovolgimento assoluto dei valori tra bene e male con l’ideologia hitleriana; per l’uso sistematico della tecnologia moderna nella realizzazione di un genocidio; per la costruzione di un sistema totalitario; per la tradizione antisemita europea.
Il suo ragionamento però non ha niente a che fare con quello di chi, quando ricorda l’unicità della Shoah, pensa che quel male radicale non possa essere mai paragonato con un altro male.
La filosofa ebrea ed ungherese ci invita a pensare che ogni forma di degenerazione politica, di discorso pubblico con massime malvagie, di limitazione dei diritti democratici, di attacco al pluralismo e al dialogo con una verità ideologica, di ritorno ai nazionalismi, ci potrebbe riportare di nuovo in quel baratro.

L’anticamera del male è sempre un segnale che tutto potrebbe ripetersi.
“Come impedire che si verifichi di nuovo un orrore anche solo simile? La risposta è semplice. Mobilitando tutte le forze mentali, e anche i poteri istituzionali se necessario, contro l’antisemitismo, contro il razzismo in generale, contro i pericoli di qualsiasi totalitarismo e terrore vecchio e nuovo che sia; mettendo in atto tutte le risorse mentali e sociali, come la tolleranza, la comprensione reciproca, la diffidenza verso le basi psicologiche del totalitarismo, verso i gemelli del nichilismo e del fondamentalismo. È necessario lavorare sull’immaginazione. Affinché tutto ciò sia possibile, serve un mondo in cui i diritti dei cittadini siano riconosciuti dalle leggi, dove i diritti umani siano riconosciuti, dove ci sia liberà di parola e di stampa, serve in definitiva il mondo delle democrazie liberali. Esistono poche democrazie liberali e quelle che esistono subiscono pressioni esterne ed interne”.

Il suo monito vale ancora di più per questi giorni in cui tutta l’umanità, in ogni angolo del globo, è messa a dura prova di fronte alla pandemia.
Se ne potrebbe uscire con una collaborazione internazionale, come si legge sulle nostre pagine nell’intervista allo storico Yuval Noah Harari, o con guerra di tutti contro tutti e la nascita di nuovi regimi totalitari, che potrebbero controllare le persone e decidere chi possa vivere oggi e chi debba essere abbandonato al contagio.

Dimenticare gli anziani, i Paesi più poveri, i migranti nei campi profughi è già stata la tentazione di alcuni governanti. Anche in questa emergenza, assieme a grandi atti di solidarietà, sentiamo parole malvagie e vediamo chi soffia sul nazionalismo, auspica regimi autoritari e ci invita a fare la guerra ai nemici.

di Gabriele Nissim

CONTROVIRUS | Ripartiremo

Umberta Telfener, psicologa clinica

Ripartiremo? Ripartiremo. Però con un po’ di paura.

Finché stiamo chiusi e obbligati da regole ferree tutto sembra andar bene, viviamo una vita protetta, tutti uniti contro un nemico comune. Forse un po’ impigriti ma fieri di come stiamo reagendo, di quello che stiamo capendo di noi, perché l’essere reclusi ci spinge inevitabilmente a comprendere i modi attraverso cui la vita si configura. Continuiamo ad essere obbedienti. Ci siamo adattati a un mondo piccolo piccolo, senza aspettative, fatto di compiti da eseguire, tempo da impiegare, quotidianità da riempire. Alcuni continuerebbero a stare benissimo così, si sono assuefatti alla tana, si lamentano soltanto per paura di essersi adattati troppo e perché vogliono restare fedeli alle differenze che proponeva il mondo precedente.

Penso alla sera prima del giorno in cui inizierà la fase due. Immagino di uscire dall’intorpidimento. Che succederà? A maggio i confini si allenteranno. Avremo molte decisioni da prendere: la paura di non riuscire a decollare, le preoccupazioni economiche, le scoperte che abbiamo fatto rispetto ai nostri insight psichici, la necessità di uscire da uno stile di vita semplice, forse regredito dalla disciplina delle regole dietro le quali ci siamo a forza nascosti.

Abbiamo detto che “l’era dei dilettanti è finita”, che è un tempo nuovo dove ci sarà bisogno di molta professionalità e di tanta competenza per gestire la complessità. Abbiamo parlato di cambio di paradigma, si dice che siamo radicalmente trasformati, che stiamo facendo un salto qualitativo, che i valori non possono che essere diversi, che la lentezza ci ha fatto da maestra.

Su cosa possiamo fare leva per ricominciare?

Sul senso di comunità, sul legame sociale che in questi giorni è mantenuto dal sentire che siamo tutti sulla stessa barca. Anche chi è per conto suo è stato incluso in questa lotta che ci vede solidali, mi auguro che riusciremo a continuare a sentirci una comunità pulsante, che pochi andranno per la propria strada, dietro a un proprio progetto singolo.

Potremo contare sul desiderio di tornare a esplorare, in un momento in cui la conoscenza si è evoluta, diventando un errare per stimoli, seguendo le emozioni e i capricci, portandoci in luoghi inesplorati. Abbiamo capito che si può imparare divertendosi, che esistono gruppi di interesse trasversali e transnazionali.

Sulla necessità di tornare a guadagnare, magari proponendo attività nuove, cercando proposte e opportunità fuori dagli schemi usuali, nuove alleanze trasversali.

Sulla sovrabbondante interazione del mondo virtuale, che è diventato un nostro organo di senso, un prolungamento del nostro cervello, un mondo ricco di potenzialità e scoperte.

Sulla voglia di sperimentare e sull’entusiasmo e sull’energia per farlo a livello personale oltre che collettivo. Mi auguro che saremo capaci di sporcarci le mani con la solidarietà e l’accettazione delle differenze; con l’accoglienza delle nostre inevitabili limitazioni.

Il giorno prima del passaggio alla fase due dovremo decidere molte cose, tra le altre:

  • cos’è socialità e quale società vogliamo;
  • se vivere una vita organizzata dall’etica oppure dall’economia (l’avere o essere che ci aveva proposto lo psicologo Erich Fromm già nel 1976);
  • quali responsabilità ci vogliamo assumere rispetto al mondo, come mantenere viva una forza creatrice anziché arrenderci alla distruzione;
  • se tornare all’auto-referenza e al solipsismo consumista o continuare il dibattito pluralistico che il virus ci ha dato l’occasione di sperimentare;
  • se aprire al futuro e alle sue promesse indecifrabili o restare ancorati alle certezze del passato.

È il tempo per desiderare un mondo nuovo. È chiaro, vorremmo un mondo in cui i bisogni primari siano garantiti a tutti, ma dobbiamo stare attenti a non separare in modo incommensurabile l’idealizzazione dei desideri dalla realtà. È tutto da costruire, dipende da noi tutti. Io un po’ paura ce l’ho, ma ho anche tanta voglia di ripartire.

di Umberta Telfener

CONTROVIRUS | E la pandemia economica?

Giovanni Barone Adesi, Professore di Teoria Finanziaria, Università della Svizzera italiana

L’epidemia di Covid-19 impatta notevolmente la vita sociale ed economica di molti Stati. A parte la Corea del Sud, che ha adottato una strategia inedita e, sembra, vincente, molti altri dei Paesi colpiti hanno dovuto arrestare buona parte delle loro attività economiche non essenziali.

La Corea ha evitato il blocco dell’economia tracciando, attraverso i telefonini, i percorsi degli infetti rilevati nei giorni precedenti, chiedendo a chi si fosse trovato nelle vicinanze di presentarsi per esami medici e mappando su una app il rischio delle varie aree. Si tratta di misure che soltanto una società molto solidale, tecnologica e con la memoria recente dall’epidemia SARS poteva mettere in atto.

I mercati finanziari hanno risentito pesantemente dell’epidemia. Tanto più che molti paesi hanno inizialmente posto ostacoli al commercio, anche di prodotti sanitari essenziali, nel vano tentativo di proteggersi a scapito degli altri. Il rallentamento delle attività economiche, aggravato dall’incertezza sulla sua durata, ha impattato pesantemente il valore dei titoli borsistici. Anche beni rifugio tradizionali, come l’oro, ne hanno risentito. La ricerca di dollari per i pagamenti ha portato a ridimensionare quasi tutte le quotazioni.

Il crollo delle quotazioni non colpisce soltanto la ricchezza degli investitori, tra i quali gli istituzionali, come fondi pensione, ma minaccia di trasformare la crisi originata da un virus, che speriamo sia stagionale, in una depressione economica permanente. Una minaccia che non è sfuggita ai governi i quali, memori della crisi del 2008, hanno deciso che una risposta graduale sarebbe stata fuori luogo.

La Svizzera è passata da dieci a quaranta miliardi di aiuti all’economia in quarantotto ore. Gli altri Paesi europei hanno anche promesso aiuti, nei limiti delle loro possibilità. Gli Stati Uniti sono passati da cinquecento miliardi di dollari a due trilioni, annunciati dal consigliere economico di Trump, Kudlow, sabato sera, con l’accordo provvisorio di repubblicani e democratici.

A parte la Svizzera, gli altri paesi avranno bisogno di indebitarsi pesantemente per far fronte a queste decisioni. Molti di questi soldi saranno necessariamente spesi male, ma l’urgenza della situazione non consente riflessioni approfondite sull’efficacia delle singole misure.

Nel caso degli Stati Uniti, è prevista anche la distribuzione di contanti alla popolazione. Questa misura, nota come helicopter money da un celebre saggio di Milton Friedman, è già stata sperimentata nella crisi del 2008, quando ciascun contribuente americano ricevette un assegno per trecento dollari. Un importo che può sembrare minimo, ma è vitale in una società nella quale la classe media è perennemente sovraindebitata, e adesso minacciata di disoccupazione

Sembra quindi che tra le vittime del Covid-19 dovremo annoverare la parsimonia, già quasi ovunque in pessima salute dopo decenni di giganteschi deficit pubblici. Gli Stati utilizzeranno, giustamente, tutte le loro armi per evitare il peggio.

Si porrà però il problema di come gestire i conti pubblici dopo la fase iniziale, nella quale le banche centrali acquisteranno il nuovo debito e forniranno la liquidità necessaria. Rimborsare questi debiti in termini reali richiederebbe per quasi tutti i Paesi inasprimenti della pressione fiscale. Questi inasprimenti vanificherebbero gli sforzi in atto per sostenere l’economia. L’alternativa di tenere questi debiti parcheggiati presso le banche centrali, possibile nel medio termine, impedirebbe a queste ultime di alzare i tassi d’interesse qualora, a lungo termine, diventasse necessario. Inoltre l’insolvenza degli Stati sarebbe una soluzione drammatica che nessun governo desidera affrontare. Resta quindi solo l’alternativa di stampare moneta, che conduce a una prolungata inflazione.

Probabilmente quasi tutti i paesi sceglieranno quest’ultima strada, che i sessantenni ricordano dalla loro gioventù: allora quasi tutti i Paesi inflazionarono la loro moneta. La Svizzera all’epoca mantenne la stabilità monetaria, ma dovette contendere con una massiccia rivalutazione del franco, che richiese un lungo processo di adattamento per l’industria elvetica.

di Giovanni Barone Adesi

CONTROVIRUS | Toccare il cuore senza toccare

di GiamPaolo Casella, medico rianimatore Ospedale Niguarda
Barbara Lissoni psicologa Ospedale Niguarda

Il sistema sanitario italiano si trova attualmente ad affrontare un’emergenza sanitaria nazionale (e internazionale) di portata paragonabile, forse, ad alcune pandemie del passato che non tutti gli operatori sanitari hanno vissuto. L’Ospedale Niguarda di Milano è in prima linea nella risposta all’emergenza e in poche settimane i reparti di terapia intensiva sono sovra saturi, tanto da dover destinare altri reparti all’accoglienza di pazienti affetti da Covid 19 rivoluzionando in questo modo l’organizzazione anche di reparti diversi dalla terapia intensiva. L’intero ospedale ha cambiato volto: incontra il nemico impalpabile ed invisibile, lo accoglie e lo gestisce fino alla fine, qualunque sia la fine. La dicotomia vita-morte coinvolge tutti senza tempo per prepararsi, elaborare e congedarsi dall’altro; si aprono continuamente porte per cercare di dare risposta all’emergenza senza avere il tempo di richiuderle. 

Da ormai quasi due mesi la sensazione di liquidità (definizione di Bauman) ci attraversa: “i liquidi non possono preservare la loro forma per troppo tempo, mutano continuamente ed in maniera imprevedibile. La condizione di bisogno implica la necessità di ri-identificazione continua che genera attrazione e dolore. Viviamo nell’incertezza.” Queste definizioni sono sorprendentemente attuali nei reparti e tra gli operatori. 

Il paziente è ricoverato, isolato e “curato” da specialisti “astronauti” per il loro abbigliamento; i parenti sono in quarantena e confinati lontano dai loro cari. Per i reparti non intensivi i cellulari riescono a favorire un contatto diretto dal paziente alla famiglia; nel nostro reparto di terapia intensiva noi fungiamo da filo conduttore tra il paziente sedato e la famiglia isolata. Il medico una volta al giorno racconta l’andamento della giornata clinica, lo psicologo due o più volte alla settimana segue e rinforza il legame minacciato dalla incertezza, dal rischio di morte, dalla precarietà di un sistema “liquido”. I parenti hanno come unico legame con il proprio caro: l’ospedale. Affidano tutto ciò che hanno di più sacro ad un medico mai visto.  “Ci siamo conosciuti ormai 35 anni fa. Mi ha chiesto di sposarlo in un modo strambo. Ed in un modo strambo si è ammalato”: ciascun paziente è la propria storia. “Mia madre si occupa di tutta la contabilità della nostra piccola impresa famigliare: so che quando si sveglierà mi chiederà chi ha pagato le bollette”: ciascun corpo è una persona. “Ho una spada di Damocle sulla testa: da 3 mesi, a causa di un litigio, non ho più visto né sentito mia madre. Vorrei dirle che mi dispiace e che si svegli per favore”: ogni paziente ha una vita da onorare. 

Il passaggio è stato brusco e disorientante anche per noi: dall’epoca delle rianimazioni aperte (dalle 14.00 alle 22.00 pre-Covid) in cui i colloqui con le famiglie avvenivano in uno spazio protetto (la stanza colloqui), vis a vis, in un tempo dedicato con un’equipe multidisciplinare (medico, infermiere e psicologa), al momento della cura con tute “marziane”, doppi guanti, mascherine che levano il fiato, visiere di protezione, in un reparto non accessibile. Molti pazienti sono generalmente in sedazione profonda, scivolano, se va bene, verso un lento risveglio per liberarsi della macchina che respira per loro. Se va bene. Come rendere umana una condizione disumana? A loro, i pazienti risvegliati, siamo riusciti a far sentire le voci ed i messaggi inviati grazie alla tecnologia, a mostrare i volti dei loro cari (Ipad, Whatsapp). Questi pazienti senza voce, con lacrime silenziose ed esauste alzavano un pollice verso l’alto “andrà tutto bene”. Ai parenti di pazienti ancora sedati mandiamo fotografie di volti di chi si cura di loro, di immagini di vita da reparto nel tentativo di mostrare il luogo e le persone che contengono il loro caro “strappato da casa”. 

E quando va male? “Non si può morire così soli” e non lo permettono gli infermieri che,  con una solida professionalità aggiungono quel pizzico di umanità sotto le divise da “astronauti” ed accarezzano nonostante i doppi guanti, non perdono di vista una smorfia nonostante le visiere, tengono la mano del morente nonostante la sedazione profonda fino all’ultimo battito cardiaco. Prelevato (soccorso) da casa, isolato in ospedale, deceduto. La salma viene portata in camera mortuaria senza alcun rito utile ai fini di un ultimo saluto, un’ultima presa in cura e la bara si chiude senza aver visto chi ci fosse. E le disposizioni di sicurezza favoriscono lutti “liquidi”. I parenti vivono da lontano, impotenti ed ingabbiati: “Per favore ditegli che gli vogliamo bene, che siamo lì con lui, che a casa va tutto bene”, “Se potete gli raccontate che il suo regalo (prenotato un mese fa) è arrivato ed è piaciuto tanto”, “Dottoressa lui sente male? Lo vede lei per me?”, “E’ inaccettabile, è stato portato via 20 giorni fa. Andava nell’orto. Amava la montagna. Non posso crederci così”. E grazie al lavoro di “H for Human”, ideato e supportato da Wamba (associazione no profit specializzata in progetti ospedalieri)  negli ultimi 5 anni di formazione permanente nel reparto di terapia intensiva 1 su temi quali “il processo del morire in terapia intensiva”, “ la comunicazione difficile”, “le relazioni efficaci”, oggi i nostri operatori hanno quella marcia in più nella tempesta drammatica che permette di poter prevenire lutti  “complicati”. La preoccupazione oggi va sul presente “precario” e sul futuro “minaccioso” per chi sopravvive: operatori, pazienti e parenti. 

Medici ed infermieri delle rianimazioni, ma anche di altri reparti, si scontrano con un nemico invisibile, impalpabile, ignoto, che non ha ancora cura e soluzione. Il senso di impotenza, di minaccia per sé e per i propri cari, li pervade e mette a confronto sul crinale delicato vita-morte. La morte per la prima volta per molti di noi non è fuori, lontana, ma ci tocca da vicino in ogni attimo ed ovunque: la rivoluzione biomedica ha consentito all’uomo di modificare la storia naturale di molte malattie, fino ad interferire con il processo della morte e con la sua stessa definizione. Il filosofo Umberto Curi sostiene che il paradigma alla base della medicina tradizionale sia ancora “influenzato dal mito della medicina come scienza esatta”, in cui il concetto di limite è visto come ostacolo, ingombro, negatività da superare. Ed ora? Medici ed infermieri vivono il limite, l’impossibilità di curare. Le tecniche supportano ma non risolvono. La strada, in attesa della “cura”, è la possibilità di “prendersi cura” in questa sospensione. L’identità professionale di ciascuno di noi è messa a dura prova. Impauriti ma efficienti, incerti ma solidi, fragili ma tenaci, siamo costretti a tenere insieme la complessità del vivere in questo tempo: il nostro sentire con la professionalità, laddove l’una non deve escludere l’altra. E se “testa e cuore” si separeranno troppo, i disturbi post-traumatici da stress prenderanno il sopravvento. Questa è la sfida che il nostro reparto, grazie ad “h for Human” sta portando avanti con l’attenzione di uno psicologo dedicato in reparto. Si può morire con dignità anche al tempo del Covid con questi operatori. 

“Insegnerò alle mie amiche ballerine a danzare con le ali senza toccarsi. Loro insegneranno ai bambini ad abbracciarsi con le orecchie, a sorridere con le mani, a baciarsi con gli occhi. Sono arti invisibili che parlano di cose magiche: toccano il cuore senza essere toccati” (favola)

Difficile prendersi cura senza riuscire a curare, ma è la sfida che questo tempo ci lancia. 

Difficile toccare il cuore senza toccare, ma è la sfida che questo tempo ci lancia.

di GiamPaolo Casella e Barbara Lissoni 

CONTROVIRUS | Gli angeli di Niguarda

Intervista di Viviana Kasam a Roberto Fumagalli

Roberto Fumagalli, Direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapie Intensive dell’Ospedale Niguarda di Milano

Medici e infermieri dei reparti di terapia intensiva e rianimazione, sono oggi nell’occhio del ciclone. Lavorano quasi sempre in condizioni disperate, ospedali sovraffollati, mancanza di letti e respiratori, a volte la necessità di scegliere a chi garantire le cure di sopravvivenza, il tutto reso ancor più difficile dalle misure di protezione che rendono difficile  ogni contatto ravvicinato non indispensabile con i malati e con le loro famiglie.

I media parlano di eroi e c’è sicuramente eroismo in chi quotidianamente rischia la propria salute per curare gli altri, si sottopone a turni estenuanti e sa in partenza che le possibilità di guarigione sono limitate: una lotta disperata e spesso disperante.

“Per noi è una sofferenza” racconta il Professor Roberto Fumagalli, Direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapie Intensive dell’Ospedale Niguarda di Milano. “Da una dozzina d’anni insieme ai medici e agli infermieri del mio reparto ci siamo prodigati per umanizzare la nostra specialità, che è una delle più tecnologiche. Nel nostro reparto i malati sono spesso addormentati, supportati da macchine: contatti, emozioni, sentimenti non venivano presi in considerazione, anzi, si creava in molti di noi un senso direi di onnipotenza: la vita e la morte nelle nostre mani”. 

Poi il prof. Fumagalli conosce Roberto Malacrida che in Svizzera, a Bellinzona, ha creato, attraverso la Fondazione Sasso Corbaro, una scuola di Medical Humanities, che punta sulla formazione di personale medico e paramedico con sensibilità agli aspetti psicologici –ma anche etici- nel rapporto con il paziente e con la sua famiglia. 

Medical Humanities è difficilmente traducibile in italiano. Ma si capisce subito che al centro dell’approccio di questi medici c’è il rapporto umano. “Piccoli gesti di empatia, uno sguardo, una carezza possono cambiare la vita di un malato. E il linguaggio, la gestualità, l’attenzione con cui ci si rivolge ai familiari, la condivisione delle decisioni più difficili, sono fondamentali per chi rischia di perdere la persona che ama senza neanche poterla abbracciare”.

Il professor Fumagalli con la coordinatrice infermieristica Isabella Fontana va con i suoi medici e infermieri a Bellinzona. Con loro trasformano il reparto, cercando di rendere l’ambiente più caldo e accogliente: una piccola libreria, schermi televisivi per distrarre e ingannare l’attesa, persino cartoni animati per i bambini. Si confrontano e condividono l’esperienza con il San Gerardo di Monza e il San Giovanni Bosco di Torino.

La terapia intensiva si apre alle visite (“prima si faceva entrare un parente alla volta, per massimo 10 minuti, ora vengono quando vogliono”), i 12 medici e i 30 infermieri  incontrano spesso le famiglie alla presenza della psicologa Barbara Lissoni, in una saletta dedicata nei casi più difficili. Grande è l’attenzione al linguaggio: “perché è più facile affidarsi ai termini tecnici, burocratici, disumanizzanti. Creare empatia ha un costo emotivo, ma è anche una grande ricchezza. Per i medici la morte è una sconfitta, ma in questi reparti il personale deve essere pronto non solo ad accettarla ed elaborarla, ma anche ad accompagnare i malati e le lor famiglie verso un fine vita consapevole e dignitoso”. 

 “Ma l’emergenza di questi mesi sembra aver vanificato tanti anni di lavoro” sospira il professor Fumagalli.- Il nostro reparto è passato da 35 posti a 100, di cui 80 per  il Covid. In questa situazione c’è ben poco tempo per prestare attenzione alla psicologia. Anche perché il paziente deve stare isolato, dobbiamo scoraggiare i famigliari dal venire a trovarlo. Prima, quando il paziente si svegliava gli eravamo vicini, per stringergli la mano, fargli una carezza. Oggi diventa sempre più difficile, per la mancanza di tempo e per le misure di protezione. E non possiamo più incontrare i famigliari. Ci stiamo organizzando con i cellulari e gli Ipad. Ma non è facile. Anche perché una cosa è entrare in reparto, un’altra vedere le immagine fredde e terrorizzanti di una persona intubata. Abbiamo sostituito gli incontri fisici con telefonate quotidiane per cercare di raccontare quello che succede, costruire un rapporto, aiutare a modulare l’ansia. Ma è difficile anche per noi. Soprattutto se dobbiamo comunicare cattive notizie. Prima abbracciavamo i famigliari, piangevamo con loro. Ora che cosa possiamo fare? Un aspetto terribile di questo virus, è che toglie la possibilità di un ultimo abbraccio, di un ultimo saluto. E anche noi dobbiamo fare i conti con la nostra impotenza..”

Intervista di Viviana Kasam a Roberto Fumagalli

CONTROVIRUS | L’ ”Umanesimo clinico” nella pandemia

Intervista di Clara Caverzasio a Roberto Malacrida

Roberto Malacrida, membro della Commissione nazionale di etica in materia di medicina umana;
Già primario di Medicina intensiva e direttore medico dell’Ospedale Regionale di Lugano

Erano i primi anni ’90 quando in una Facoltà di medicina di una università del Texas, quella di Galvenston, “ci si rese conto che non solo gli studenti, ma anche i medici, non avevano ben chiaro cosa fosse la malattia e cosa volesse dire essere ammalati . E così alcuni docenti di quella facoltà decisero di far ricorso ai testi letterati di grandi scrittori che parlano di malattia, -daThomas Mann e la sua Montagna incantata a La Peste di Camus, per non citare che i più noti- convinti che attraverso la letteratura si potesse far passare meglio quei concetti.
Anche se l’esigenza di arricchire gli studi nelle scienze mediche con le discipline umanistiche nasce già sul finire degli anni ’60 e proprio in America, quella di Galvenston è una delle prime esperienze in Medical Humanities, un nuovo ambito di riflessione che si approccia alla medicina dal punto di vista etico, considerando le componenti psicologiche, sociali e culturali della relazione tra il medico e il paziente. 
Una esperienza che mai come oggi acquista di importanza a fronte di una medicina scientifica  – la tecno-medicina iperspecialistica cui dobbiamo molte conquiste- ma che di fatto, si è un po’ allontanata dall’ “arte medica”, quella che si occupa dei pazienti non solo dal punto di vista clinico-terapeutico, ma anche dal punto di vista umano ed empatico. E non da ultimo ‘etico’. 
Uno dei primi in Svizzera ad interessarsi a questo nuovo approccio, e all’esigenza di promuovere un“umanesimo clinico”, è stato il dottor Roberto Malacrida, a lungo primario di Medicina intensiva e direttore medico dell’Ospedale  Regionale di Lugano, oltre che membro della Commissione nazionale di etica in materia di medicina umana. 
Di ritorno da Galvenston, dove si era subito recato per capire che cosa stavano sperimentando, Malacrida creò, nel 2000, la Fondazione Sasso Corbaro, Istituto ora associato all’Università della Svizzera Italiana, che si dedica, prima in Svizzera, alla promozione dell’etica clinica e delle Medical Humanities , che rispondono appunto alla volontà di introdurre nell’ambito della cura due componenti essenziali senza le quali la pratica terapeutica rischia di ridursi a un arido intervento tecnico: i criteri etici e la necessaria sensibilità verso la dignità del paziente, nel rispetto della sua sofferenza somatica e psichica. Da allora La Fondazione ha creato un centro di documentazione che ora raccoglie ben 6500 libri e 1200 film dedicati all’etica e alle Medical Humanities ; e ha organizzato vari Master -a cominciare nel 2002 da quelli con l’università dell’Insubria, con la Facoltà di medicina di Ginevra, e in seguito con la Supsi-, in cui ha dato molto spazio a questo sguardo culturale. Col tempo ha iniziato a svolgere anche attività di ricerca, tra cui, recentemente uno studio che ha a che fare proprio con la situazione di emergenza pandemica che stiamo vivendo: “ in collaborazione con la Facoltà di scienze biomediche dell’USI, ci stiamo interessando a come cambia la presa di decisione etica in caso di pandemia, per capire come funziona la giustizia distributiva, ovvero come funziona il triage, che è il sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni o malattie secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico.”
Una situazione, quella della pandemia, che stiamo sperimentando proprio in questo periodo e che mostra come l’emergenza che si è venuta a creare con il coronavirus ha portato con sé alcuni cambiamenti e non poche difficoltà anche dal punto di vista etico e delle Medical Humanitiesintanto perché “nella cura, in cui prima vi era sempre e soltanto un rapporto uno a uno, quindi curante-paziente, ora è entrata la collettività, così che le Medical Humanities ora “hanno l’obbligo di interessarsi più da vicino della solidarietà (…).
Al di là del rischio, concreto, che in una situazione di emergenza clinica stringente come questa, le scienze umane mediche vengano un po’ trascurate proprio nel momento in cui in realtà sarebbero più necessarie, lo ‘stato di necessità’ indetto dalle autorità ha fatto emergere vari problemi come “quello legato alle direttive sul pericolo della vicinanza: le Medical Humanities hanno sempre insistito sull’importanza della vicinanza  tra curante e ammalato, una vicinanza cosiddetta ‘giusta’, che non crei confusione, e che ora più che mai non deve diventare troppo stretta, anzi, giacché non sono più consentite le visite da parte dei familiari o degli amici, e il tempo di visita deve essere limitato anche nei casi di fine vita.”
Ecco perché secondo il dottor Malacrida “si prevede che al momento della post-pandemia si dovranno investire molte energie per aiutare i famigliari a elaborare meglio il lutto e si dovrà affrontare anche il disagio psichico che i pazienti guariti hanno comunque vissuto a causa della lontananza, fisica per lo meno, dei loro cari.
Su queste e altre nuove sfide, che la società in generale e la medicina in particolare, comprese le Medical Humanities, dovranno affrontare, ci parla in una lunga intervista proprio il dottor Roberto Malacrida, che ci racconta anche il suo percorso professionale volto a promuovere un Umanesimo clinico.

INTERVISTA A ROBERTO MALACRIDA

L’ ”Umanesimo clinico” nella pandemia


Cosa è cambiato e quali problemi sono insorti, e insorgeranno, anche dal punto di vista etico e delle scienze umane  medichea seguito della ‘emergenza pandemica. 

Dottor Malacrida, lei è stato tra i principali promotori delle Medical Humanities in Svizzera: intanto ci vuol spiegare di cosa si tratta e da quale esigenza nascono?
Le Medical Humanities, che insieme al dottor Graziano Martignoni chiamiamo talvolta anche ‘umanesimo clinico’, nascono di fatto più di trent’anni fa negli Stati Uniti, e più precisamente all’università di Galvenston in Texas, presso la facoltà di medicina, dove ci si era accorti che non solo gli studenti, ma anche i medici, non avevano ben chiaro cosa fosse la malattia e cosa volesse dire essere ammalati . E così alcuni docenti di quella facoltà, proposero, con un approccio interdisciplinare, di far ricorso ai testi letterati di grandi scrittori che parlano di malattia, –  -si cita sempre Thomas Mann e la sua Montagna incantata, così come La peste di Camus, ma ce ne sono almeno 3000 -, – convinti che attraverso la letteratura si potesse far passare meglio quei concetti. 
Così, nel 1995 credo o in quegli anni, mi recai a Galvenston per capire un po’ cosa facessero. E quando tornai, decisi di creare, nel 2000, la Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities, che riprendevano un po’ questo concetto. Concetto che poi si è evoluto, nel senso che ci si è accorti della grande difficoltà che i medici hanno nella modalità di comunicazione soprattutto delle cattive notizie, cioè delle notizie legate alle diagnosi pesanti, e poi alle prognosi difficili. E ci siamo interessati molto a questo problema, che è legato anche alla comunicazione. Dato che non avevamo dei letterati che potessero aiutarci in maniera specialistica, siamo ricorsi al cinema, che a quei tempi era un po’ una novità; adesso i film vengono usati in questo senso da moltissimi, credo. Devo dire che la nostra scelta è dipesa in realtà da un elemento privato legato alla mia famiglia: mia figlia infatti si era laureata in storia del cinema a Losanna ed è stata lei che ci ha suggerito e consigliato i film da scegliere e commentare. Per la stessa ragione, nel 2000 abbiamo cominciato a creare un Centro di documentazione presso la Fondazione Sasso Corbaro, che adesso raccoglie 6500 libri e circa 1200 film dedicati all’etica e alle Medical Humanities. A seguito della recente associazione della nostra Fondazione all’Università della Svizzera italiana, attraverso la Cattedra di salute pubblica che prevede anche l’insegnamento dell’etica e delle Medical Humanities, il centro di documentazione sarà una succursale esterna della Biblioteca dell’Università della Svizzera Italiana e servirà soprattutto ai futuri studenti della Facoltà di scienze biomediche. 
Al centro delle Medical Humanities per noi, o almeno per me, vi é la disciplina della bioetica, e in particolare dell’etica clinica che è collegata al letto dell’ammalato. E attorno ad essa varie discipline, che vanno dalla filosofia e alla psicologia in particolare, all’antropologia, all’economia sanitaria, ma anche al diritto, che è di grande importanza rispetto all’etica. E non ultimo le arti, perché, e lo dico con prudenza, noi pensiamo che la cultura, intesa come sensibilità culturale, può essere di grande aiuto per comunicare meglio e per essere più sensibili, -oggi si direbbe empatici,- nei confronti di chi è ammalato. La nostra idea è che la cultura aiuti a capire meglio chi è ammalato e la sua situazione, ed è per questo che in tutti i Master che abbiamo organizzato, a cominciare nel 2002, da quelli con l’università dell’Insubria, con la Facoltà di medicina di Ginevra e in seguito con la SUPSI, abbiamo dato molto spazio a questo sguardo culturale, perché secondo noi la cultura può e dovrebbe portare a una migliore comunicazione empatica. Negli ultimi anni abbiamo dedicato il nostro insegnamento anche ai diritti umani, integrando così l’etica clinica con l’etica politica.

La Fondazione Sasso Corbaro non si limita a istituire dei Master o a gestire un centro di documentazione, ma svolge anche attività di ricerca
Sì, negli ultimi anni abbiamo dedicato le nostre ricerche a temi come quello dell’”intimità in Cure intense” o della “speranza nella comunicazione delle prognosi difficili” oppure dei dilemmi etici legati all’”autonomia relazionale”: progetti che abbiamo potuto pubblicare su ottime riviste scientifiche internazionali. Attualmente ci dedichiamo alle problematiche etiche poste dalla presa di “decisione etica nei gravi disturbi della coscienza”, dal coma agli stati di minima coscienza. 
Per quel che riguarda invece più da vicino le Medical  humanities, in collaborazione con la Facoltà di scienze biomediche dell’USI, ci stiamo interessando a come cambia la presa di decisione etica in caso di pandemia,per capire come funziona la giustizia distributiva, ovvero come funziona il triage, che è un sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni o malattie secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico. A dire il vero, fino a questo momento, in Ticino non siamo ancora arrivati a un vero problema di triage, anche perché l’organizzazione tra l’Ente ospedaliero e la clinica Moncucco è stata fin qui così efficace da avere un numero di respiratori e posti letto per ora sufficiente; speriamo che arrivi presto il picco pandemico, perché siamo quasi al limite; superato il quale poi bisogna fare una scelta più dura, più drastica, eticamente e umanamente più difficile.

Quali cambiamenti e quali difficoltà ha portato con sé dal punto di vista delle Medical Humanities questa situazione di emergenza venutasi a creare con il coronavirus?
La pandemia di per sé,  da un punto di vista bioetico ha prodotto un cambiamento importante, perché nella cura, in cui prima vi era sempre e soltanto un rapporto uno a uno, quindi curante-paziente, ora è entrata la collettività. E con essa è entrato il quarto principio della bioetica che è quello della giustizia distributiva, passaggio importante perché comprende il concetto del triage. Quando si esclude o non si considera la giustizia distributiva quindi la collettività, il bene della collettività, ecco che il triage non è così determinante rispetto alle speranze di vita dei pazienti, ma soprattutto nel fatto di non arrecargli del male. Il triage è importante sia in medicina intensiva sia in oncologia o in neurologia perché non ha senso essere troppo aggressivi se questa modalità d’intervento porta a una medicina futile, che fa più del male al paziente che del bene e quindi perde di senso. In caso di pandemia, il rapporto fra curante e paziente deve inglobare anche la collettività e in questa situazione direi che le Medical Humanities hanno l’obbligo di interessarsi più da vicino della solidarietà: anche all’interno della Commissione nazionale svizzera di etica abbiamo discusso a lungo dell’importanza del concetto etico-politico della solidarietà di emergenza pandemica, a sua volta è legato al concetto di prudenza, necessaria se non si vuole fare del male né a sé stessi né agli altri.
C’è poi un altro aspetto che caratterizza lo stato di pandemia con le Medical Humanities, che è quello legato alle direttive sul pericolo della vicinanza: le Medical Humanities hanno sempre insistito sull’importanza della vicinanza  tra curante e ammalato, una vicinanza cosiddetta ‘giusta’, che non deve diventare troppo stretta per non creare confusione, così come, naturalmente, non deve diventare ‘indifferenza’, come a volte magari può succedere a causa della paura e dell’ansia del curante, rispettivamente del paziente se la malattia è molto grave e la prognosi difficile da comunicare. Per esempio all’ospedale la Carità di Locarno, trasformato in un ospedale Covid, così come nelle Case per Anziani, non sono più consentite le visite da parte dei familiari o degli amici: il tempo di visita deve essere limitato anche nei casi di fine vita. Prevediamo che al momento della post-pandemia si dovranno investire molte energie per aiutare i famigliari a elaborare meglio il lutto, e si dovrà affrontare anche il disagio psichico che i pazienti guariti hanno comunque vissuto a causa della lontananza, fisica per lo meno, dei loro cari. 
C’è infine un ulteriore problema che riguarda soprattutto il personale curante, in particolare le infermiere:  qualora dovesse scattare davvero la procedura di accoglienza specifica, ovvero un vero Triage, sono possibili dei dilemmi sulle decisioni prese dai medici che non hanno potuto convincere tutti; si tratta del “distressmorale”, una situazione ben studiata nei reparti di cure intense dove talvolta l’infermiere deve continuare a curare dei pazienti senza esserne pienamente convinto, ma perché “così” ha deciso il medico.

In un momento di emergenza clinica stringente come questo, non c’è il rischio che le scienze umane mediche vengano un po’ meno proprio nel momento in cui in realtà sarebbe più necessarie?
Certo, ma è un problema di priorità vitali: se nei periodi “normali”, l’apertura dei reparti ospedalieri, compresi quelli delle Cure intense, nei confronti delle visite dovrebbe essere la più generosa possibile, quando ci si trova in una situazione di “stato di necessità”, come per l’attuale pandemia, è molto importante che le priorità siano di tipo medico, nel senso che, proprio per proteggere tutta la popolazione e naturalmente anche i curanti stessi, bisogna adottare delle soluzioni che evidentemente possono essere vissute come drasticamente inabituali.

Quello a cui si è assistito in queste ultime settimane è un corale sentimento di gratitudine e riconoscenza, con manifestazioni pubbliche inedite, come gli applausi alle finestre a una determinata ora – verso il personale medico e paramedico, veri simboli della resilienza, come se in fondo l’umanizzazione auspicata nel rapporto tra medico e paziente, ora avvenisse in senso contrario, tra i pazienti e il pubblico da un lato e il personale medico dall’altro. Un nuovo modo di vivere e intendere le Medical Humanities?
Credo che un aspetto da non dimenticare è da ricercare nel fatto che la probabilità per i curanti di essere contagiati, quindi di subire le conseguenze di un contagio da covid19, è alta e molti curanti in Italia e Lombardia sono anche deceduti. Proprio perché la popolazione è in ansia, impaurita e angosciata di diventare positiva, perché magari si è già malati o anziani o tutte due insieme, si è sviluppata una solidarietà e una comprensione per il lavoro che il personale medico sta svolgendo, dai curanti nelle case per anziani o negli istituti per disabili, alle infermiere, ai medici delle Cure intense degli ospedali La Carità e di Moncucco. Questa compartecipazione, come ha detto lei è senz’altro una cosa molto bella.
C’è anche chi dice che con la pandemia si è diventati anche più severi nei giudizi rispetto a determinati atteggiamenti “alternativi” nei confronti della medicina ufficiale, come se davvero adesso “non si può più scherzare”;  ho letto che anche le cosiddette cure alternative fasulle hanno perso di credibilità. Si sta discutendo naturalmente di alcuni medicamenti che eventualmente potrebbero essere utili per guarire meglio, ma è come se si fosse spostato il piano della serietà, almeno dal mio punto di vista.

Questa situazione d’emergenza sta mettendo alla prova proprio i due capisaldi, le due componenti essenziali delle Medical Humanities, primo fra tutti, i criteri etici che devono opportunamente orientare le decisioni nei casi più problematici; non è forse la situazione in Svizzera, ma in altri paesi, confrontati con maggiori e a volte drammatiche difficoltà nelle strutture sanitarie, si pone in qualche caso anche la difficile scelta tra pazienti in gravi condizioni cui riservare l’ultimo posto in terapia intensiva o l’ultima attrezzatura disponibileper l’assistenza respiratoria . 
Quali sono in Svizzera i criteri etici che vengono adottati in questi casi? Vi sono linee guida valide per tutti i paesi, o per molti di essi?
Sì, sono state elaborate dalla Società svizzera di medicina intensiva e dall’Accademia svizzera delle Scienze Mediche.  Per quanto riguarda la “presa di decisione etica”, già prima della pandemia, se si voleva garantire una buona medicina si dovevano fare delle scelte, rispettando fin dall’inizio l’autonomia del paziente e le sue direttive anticipate: ci sono molti pazienti, tra quelli che hanno scritto le loro direttive anticipate, pazienti molto anziani e/o molto malati che scrivono o dicono al loro rappresentante terapeutico che non vogliono essere trasferiti  in un reparto di medicina intensiva e intubati, nel caso in cui il loro stato di salute dovesse peggiorare. Quindi già il fatto di rispettare l’autonomia del paziente permette di fare una scelta corretta. Secondariamente, ma non per importanza, come si diceva all’inizio, occorre prevenire l’accanimento terapeutico, evitare quindi trattamenti futili: in pratica astenersi dall’attaccare i pazienti alle macchine, intubarli e fare tutto quello che la tecnologia permette di fare, già sapendo che poi il paziente quasi sicuramente non uscirà dalle cure intense e alla fine vi morirà. 
Quindi il rapporto- rischio-beneficio deve essere calcolato bene per non fare del male al paziente, al quale una degenza in cure intensive procura comunque molte sofferenze.

Ma se ci si dovesse trovare, -e speriamo che non debba succedere mai in Svizzera o mai più in altri paesi come la Spagna,- di fronte a una persona di 75 anni e a un uomo di quarant’anni, entrambi con la quasi certezza di guarire, ma a condizione di poter essere attaccati a un respiratore, con quali criteri verrebbe fatta una scelta?  Nei casi in cui è successo, il criterio scelto è stato quello dell’età.
È un problema importante quello che lei solleva, perché ci sono state effettivamente  delle direttive che prevedevano come criterio determinante l’età anagrafica: per esempio in Inghilterra, alcuni decenni or sono, per preoccupazioni economiche legate alle spese della salute, si era deciso che i pazienti al di sopra dei 65 anni non dovevano più essere dializzati negli ospedali pubblici. A parte il fatto che si era creato un problema di medicina a due velocità terribile, perché i pazienti poveri non potevano essere dializzati mentre quelli più benestanti potevano andare nelle cliniche private e continuare a vivere; per fortuna si è poi rinunciato a questa legge. Oggigiorno la tendenza, e l’ho notato proprio nelle ultimissime direttive dell’Accademia svizzera delle scienze mediche e la Società svizzera di medicina intensiva, è quella di non mettere limiti d’età anagrafica. È chiaro che l’età comporta una morbidità e una presenza di malattie più alta: l’ottantenne è più ammalato in genere rispetto al quarantenne, e quindi l’età entra di sicuro a far parte dei criteri, ma non dovrebbe essere il criterio iniziale per giudicare l’entrata o meno di un paziente nel reparto di cure intense. 42’16

Dal suo punto di vista cosa ci sta insegnando questa situazione? Di cosa dovremo tener conto quando tutto questo sarà finito, quando l’emergenza sarà superata?
Dato che gli specialisti prevedono che a intervalli più o meno regolari possano ancora succedere delle nuove pandemie o dei ritorni di queste ultime, il fatto di essere preparati ed aver già sperimentato la situazione sia a livello logistico che a livello di personale, potrebbe essere un aiuto e un insegnamento, in modo che se dovesse capitare di nuovo non occorra organizzare tutto all’ultimo momento. Ma soprattutto quest’esperienza ci insegna che non si può più farsi trovare senza risorse, come altre nazioni hanno mostrato di esserlo, per aver tagliato in modo troppo importante i finanziamenti alla salute pubblica e agli ospedali in particolare.

Dal punto di vista delle Medical Humanities cambierà qualcosa?
Non so; per quanto riguarda l’aspetto comunicativo, se le conseguenze saranno pesanti, -soprattutto in termini di elaborazione del lutto non avvenuto o del trauma dei pazienti che hanno superato la malattia in condizioni di isolamento, questo ci potrà insegnare, quanto è importante la vicinanza e la buona comunicazione.
Per il resto credo che ragionare sul problema della malattia rispetto alla prognosi e poi rispetto anche al destino, sia molto importante, ed è quello che in fondo la Fondazione Sasso Corbaro ha fatto in questi vent’anni; questo potrebbe dare un certa preparazione filosofica, diciamo così, alla popolazione e abituarla ad affrontare possibili prossime pandemie, anche con uno spirito di solidarietà, di pazienza e di prudenza, che non devono essere imposte dallo Stato in modo magari categorico come è successo in Cina, ma devono attivarsi spontaneamente.
Le Medical Humanities dovrebbero sottolineare la priorità del valore della protezione della salute in generale, ma soprattutto della collettività, la più fragile nei confronti delle preoccupazioni economiche nazionali, anche se è molto probabile che le difficoltà economiche della post-pandemia avranno un impatto sulla salute, soprattutto delle classi più fragili della nostra società: la sfida etica sarà quella di saper bilanciare al meglio la difesa della salute individuale e collettiva contro gli interessi dell’economia.

CONTROVIRUS | Tempo sospeso

di Massimiliano Sassoli
de Bianchi, fisico e scrittore italiano

L’emergenza coronavirus ha imposto a molti gli “arresti” domiciliari. Come stiamo vivendo questa misura cautelare? Ammazziamo semplicemente il tempo, per non impazzire, oppure consideriamo questo momento di sospensione come un’opportunità, da non sprecare?

Per farvi un esempio, l’altro giorno ero al telefono con mia madre. Mi raccontava che stava facendo ordine tra i suoi documenti: scartoffie di ogni genere che col tempo si erano accumulate in cassetti, scatoloni e armadi.

Parlando con mia sorella, anche lei mi ha confidato che stava facendo altrettanto. Entrambe sostenevano di provare una grande soddisfazione in quell’esercizio di “messa in ordine”, che fino a quel momento non trovavano mai il tempo di iniziare, per non parlare di portare a termine. L’esercizio comportava il visionare i documenti accumulati, a uno a uno, a volte associati a ricordi ed emozioni, e per buona parte di loro lasciarli andare, una volta per tutte, cioè eliminarli, andando così a creare più spazio. Non solo più spazio fisico, nei cassetti e negli armadi, ma anche, e soprattutto, più spazio mentale.

Dopo aver parlato con loro, per associazione mi è venuta in mente l’esperienza della cosiddetta “visione panoramica” (life review), che molte persone raccontano di aver vissuto durante un’esperienza di premorte (near death experience). Questa comporta il rivivere in modo accelerato il proprio passato, come in un film, non solo sotto forma di immagini, ma anche di emozioni e sensazioni. Molti neuroscienziati sono fiduciosi di poter spiegare questi fenomeni su basi neurofisiologiche, sebbene vi sia un conflitto tra la possibilità di tali rivisitazioni, perfettamente coscienti, e il fatto che il cervello si trovi in una condizione di non funzionamento per quanto attiene alle sue funzioni mentali superiori. D’altra parte, così come una visione corpuscolare della materia non è in grado di descriverne tutte le proprietà, allo stesso modo, non tutte le proprietà della mente sono forse riconducibili alla sola attività del nostro cervello.

Ma per tornare all’interessante esercizio di “messa in ordine” di mia madre e mia sorella, questo parallelo con le esperienze di premorte mi porta a osservare alcune cose. Lasciare andare vecchie memorie è un processo simile a una “piccola morte”. Perché nelle nostre memorie, nel nostro passato, c’è una parte della nostra identità. Questa è da intendere in senso dinamico, come a qualcosa in divenire, frutto di incessanti processi di scoperta e di creazione. Di scoperta, perché esistono strati più profondi in noi, più permanenti, che possiamo scorgere solo se realizziamo che la nostra personalità è simile a un vecchio abito, che indossiamo da molto tempo, tanto da dimenticarci di ciò che esso riveste. Di creazione, perché siamo esseri in evoluzione: partendo da ciò che realmente siamo, ciò che si trova sotto l’abito della nostra personalità, possiamo nel tempo costruire nuove versioni di noi stessi, possibilmente migliori rispetto alle precedenti.

Tutto questo richiede di attraversare, ciclicamente, dei momenti simili a delle “piccole morti”, dove lasciamo andare un “fardello” di memorie ormai incompatibili con i nostri nuovi progetti di vita. Magari dei progetti non ancora chiaramente espressi e formulati, ma che possiamo in qualche modo già presagire. Ma proprio perché ci identifichiamo con il contenuto delle nostre memorie, con il nostro passato, che riverbera e condiziona il nostro presente, spesso purtroppo non in modo positivo, la tendenza è di rimandare il più possibile queste “piccole morti”. Non c’è mai il tempo di prendersi un po’ di tempo per “morire a sé stessi” e, di conseguenza, per “rinascere a sé stessi”. E se il tempo c’è, siccome il processo un po’ ci inquieta, abbiamo tendenza a procrastinarlo il più possibile. Ma la morte, ogni forma di morte, non va temuta, perché essa non si oppone in alcun modo alla vita: come la nascita, la morte è semplicemente uno dei tanti momenti che scandiscono la vita. Ci sono naturalmente piccole e grandi morti, piccole e grandi crisi, piccoli e grandi rinnovamenti, piccole e grandi nascite e rinascite, ma di questo si tratta, di appuntamenti ciclici, inevitabili, perché ogni processo di trasformazione richiede che il vecchio muoia affinché il nuovo possa nascere e crescere.

Sempre per associazione, questa riflessione mi riporta al concetto buddista di bardo, di “stato intermedio”, di transizione, tra morte e rinascita. Se vi racconto questo non è per convincervi della possibilità della reincarnazione, ma per contemplare con voi il potente simbolo che l’idea di bardo evoca. Quello di un periodo di preparazione tra un momento di vita e il successivo. Può essere inteso come periodo di riposo, certamente, ma anche come periodo di studio, di riflessione, di pianificazione, al fine di massimizzare la grande opportunità che una nuova vita rappresenta. E naturalmente, per vivere una nuova vita è necessario prima spogliarsi dell’abito della precedente.

Permettetemi un esempio. Ogni notte, quando andiamo a dormire, viviamo non solo una piccola morte (stato ipnagogico), ma altresì un piccolo bardo, un intervallo tra due vite, una sospensione della coscienza di veglia ordinaria. Siamo così abituati a questo processo che la cosa non ci preoccupa minimamente. Ogni mattino, al risveglio (stato ipnopompico), sbocciamo a nuova vita, quella del nuovo giorno che ci aspetta. A volte le nostre notti sono come dei veri e propri blackout, così al risveglio poco o nulla è cambiato rispetto al giorno precedente, ad esempio per quanto riguarda il nostro stato d’animo e la nostra visione del mondo. Altre volte invece, scopriamo che la notte ci ha portato consiglio, che è stata ricca di nuovi insegnamenti, così ci alziamo rinnovati, con nuove risorse, nuove idee e intuizioni, per il nuovo giorno che si apre a noi.

Veniamo ora al periodo molto particolare che stiamo vivendo. L’avvento della crisi sanitaria del coronavirus ha portato molti a sospendere le proprie attività abituali; a sospendere la propria vita potremmo dire, ritrovandosi confinati per lungo tempo nella propria casa. Questo periodo di “arresto delle attività abituali”, è come un bardo, un intervallo tra due vite, quella prima del coronavirus e quella dopo il coronavirus. Molti in questi giorni avranno sentito parlare della necessità di operare un profondo cambiamento nella società umana, che questo virus è solo il sintomo precursore di un inevitabile cambiamento di rotta. Naturalmente, questo cambiamento va operato a diversi livelli, ma di una cosa possiamo essere certi: potrà avvenire e stabilizzarsi solo ella misura in cui verrà agito anche a livello individuale.

Si pone a questo punto una domanda. Come stiamo passando questo intervallo tra due vite, questo inatteso periodo “intermissivo”? Ci stiamo preparando per la nostra nuova vita, quella “dopo il coronavirus”? Stiamo sfruttando il tempo a nostra disposizione per rivisitare le nostre “vecchie scartoffie” ed eliminare quelle ormai inutili? Perché per proseguire il viaggio, è necessario sganciare la zavorra. Abbiamo considerato l’importanza di abbandonare gli aspetti più negativi del nostro vecchio abito mentale? Quale sarà il nostro contributo a questa grande opportunità di rinnovamento? Torneremo alla nostra vita di sempre, senza modificare uno iota della stessa, come se nulla fosse? Purtroppo, per molti sarà proprio così. Per molti questo periodo “a casa” sarà solo il pretesto per lamentarsi di più, per impigrirsi di più, per abbruttirsi di più.

L’altra possibilità, che vale la pena di esplorare in questo “periodo intermedio”, è quella di fare ordine e creare più spazio nella nostra vita, e in questo spazio più dilatato, in questa rinnovata qualità, provare a manifestare qualcosa di veramente nuovo. Un nuovo progetto di vita, una nuova “missione”. Se non sapete come fare, vi suggerisco una tecnica molto potente, che in questo particolare momento assume ancora maggiore forza e pregnanza, perché ci ricorda che non siamo immortali, o meglio, che la durata di questa nostra vita è finita, e che il tempo non è qualcosa di riciclabile. Poi, naturalmente, il nostro viaggio potrebbe proseguire altrove, ma questa è un’altra storia.

La tecnica si chiama “un anno di vita”. Un avvertimento: può essere usata con vantaggio solo da individui con sufficiente maturità psicologica e non è sicuramente adatta a persone troppo giovani, ad esempio ancora in formazione. Si tratta molto semplicemente di porsi e agire la seguente domanda:

Se mi restasse un solo anno di vita, quale obiettivo sarebbe per me prioritario raggiungere, prima di lasciare questo piano di esistenza?

Quindi, fate come se vi restasse realmente un anno di vita e passate all’azione, alfine di raggiungere l’obiettivo in questione. Tutta la difficoltà (e potenza) della tecnica sta ovviamente nel riuscire a immedesimarsi a sufficienza nella simulazione, e imprimere così una potente accelerazione alla propria vita, nell’arco dell’ipotetico anno di vita che rimane. Dico “ipotetico” perché nessuno di noi sa quanto tempo realmente ci resta, forse molto di più di un anno, forse meno. In altre parole, tutta la difficoltà della tecnica sta nel prendere la tecnica sul serio.

Ora, molti si renderanno subito conto di non essere ancora pronti ad applicarla. Non preoccupatevi, è più che normale. Come ho detto, si tratta di una tecnica molto potente. Il mio consiglio è di allora continuare a fare ordine e creare spazio. Nel farlo, potete porvi le seguenti domande: Cosa mi impedisce di applicare in questo momento la tecnica? Quali sono gli ostacoli? Quali le risorse mancanti? Mi sto dando da fare per acquisirle? Se non lo sto facendo, quali sono gli ostacoli?

Concludo questo mio spunto di riflessione ricordando ancora una volta che ci troviamo nella pausa tra un espiro ed un nuovo inspiro; in una fase di sospensione che prelude a una nuova immersione. Ci troviamo in un mini-bardo. Se siamo lucidi a sufficienza, è facile comprendere l’importanza di questo momento; un momento perfetto per formulare un nuovo progetto, per lanciarsi in una nuova sfida. Sempreché siamo interessati a prendere in mano le redini della nostra vita, e consapevoli di essere i soli responsabili della nostra evoluzione.

di Massimiliano Sassoli de Bianchi

CONTROVIRUS | Programmare la Fase 2

Questo articolo è frutto della collaborazione con la rivista Reset 

di Viviana Kasam, presidente di BrainCircle Italia

Mentre la curva dei contagi comincia in alcuni Paesi a stabilizzarsi, molti anche in Italia cominciano a pensare alla Fase 2, quella di un progressivo ritorno alla normalità. I problemi però sono parecchi, anche perché le incognite sono più delle certezze. Avremo in tempi non troppo lunghi una cura o un vaccino? Il virus si indebolirà e finirà per sparire, come quello della SARS e della MERS, o muterà e tornerà più forte, come successe con l’influenza del 1918?

A Hong Kong, a Taiwan e in Cina la situazione si sta normalizzando, almeno a giudicare dai dati e dalle immagini che ci arrivano. Due sono le misure messe in atto. La prima è l’utilizzo obbligatorio delle mascherine per tutta la popolazione. I filmati sui social e sul web sono impressionanti, il 100% delle persone riprese per strada la indossano. Alla faccia di chi sostiene che le mascherine non servano – pare che ci siano forti pressioni anche a livello di OMS per rivedere le linee guida che dichiaravano le mascherine poco utili. La Lombardia dal 5 aprile le ha rese obbligatorie a chiunque debba uscire.

La seconda misura, più controversa, è quella del tracciamento capillare di tutti i movimenti della popolazione, grazie all’utilizzo di app per monitorare i contatti e gli spostamenti e al QR Code sanitario che bisogna esibire entrando in ogni luogo pubblico, dal metrò all’ufficio, al condominio in cui si abita. Senza smartphone controllabile dalle autorità, non si esce di casa, e nel momento in cui si dovessero manifestare sintomi e fosse necessaria una visita medica o un ricovero ospedaliero, i dati memorizzati nel telefono verranno scaricati per monitorare l’attività sociale del paziente ed effettuare controlli sui suoi contatti. I problemi etici e di tutela della privacy che questo sistema pone sono evidenti, ma i cinesi non hanno avuto la possibilità di scegliere tra la salute e il lavoro o la protezione della privacy.

In Israele, dove nonostante le critiche feroci al governo l’epidemia è stata finora contenuta (7.000 casi, 357 guarigioni, 37 decessi a ieri), due prestigiose personalità industriali hanno presentato alla Knesset un modello di exit strategy dalla rigida quarantena alla quale Israele, come l’Italia, ha sottoposto la cittadinanza, per rientrare progressivamente alla normalità ed evitare il tracollo economico.

Si tratta di Amnon Shashua, CEO di MobilEye (la società che ha sviluppato la tecnologia per la guida autonoma, venduta nel 2017 per 15 miliardi di dollari a Intel, di cui Shashua è diventato Senior vice President), e Shai Shalev-Shwartz, professore di computer science presso la Hebrew University di Gerusalemme e Chief Technology Officer di MobilEye. Il progetto è stato pubblicato su No Camels, una interessante newsletter sull’innovazione tecnologica israeliana, sponsorizzata dalla Asper Foundation.

Shashua e Shalev-Shwartz si affidano al concetto dell’immunità di gregge (herd immunity) che incontra il favore di parecchi scienziati israeliani tra i quali il professor Hervé Bercovier della HUJ (chi lo desidera può ascoltare il webinar al quale ha partecipato, organizzato dalla Hebrew University of Jerusalem).

Il modello Shashua/Swartz prevede che la popolazione sia divisa in due gruppi: quello a rischio (le persone che soffrono di patologie croniche o che hanno più di 67 anni (età della pensione in Israele: quindi comunque non rientrerebbero al lavoro), e quello considerato a basso rischio, che può progressivamente ritornare a una routine pressoché normale, mantenendo un protocollo di distanziamento per rallentare il contagio. Il concetto che guida questa proposta, è che il virus si combatte lasciando che le persone considerate non a rischio si ammalino e guariscano, creando una larga fetta di popolazione immunizzata, che può non solo vivere una vita normale.

“Fondamentale è la progressività: il ritmo del contagio deve essere sostenibile dalle strutture sanitarie “ spiega Shashua. Questo è il nodo centrale per chi volesse applicare il modello israeliano, soprattutto in Italia, dove i letti in terapia intensiva e rianimazione sono fortemente sottodimensionati. E quindi la ripresa deve essere graduale, commisurata alla capacità ospedaliera e costantemente monitorata. “In Israele ci vorranno circa tre mesi – prevede Shasua – per tornare alla piena occupazione (attualmente la disoccupazione sfiora il 25%, un lavoratore su quattro). Sviluppata nella popolazione l’immunità di gruppo (calcolata nel 60% della popolazione), anche le persone più a rischio potranno uscire dalla quarantena”.

Per comprendere il concetto di herd immunity, bisogna immaginare i virus come un microscopico esercito che sopravvive nidificando nelle nostre cellule, dove si riproduce esponenzialmente a una velocità stratosferica. Se non riesce a farlo, perché una buona parte della popolazione è immunizzata e quindi non costituisce terreno fertile, l’esercito dei virus si indebolisce progressivamente e soccombe. La spiegazione non è scientificamente accurata, ma utile per dare un’idea. L’alternativa sarebbe di tenere tutti in quarantena per un lungo periodo, distruggendo l’economia: e chi garantirebbe che una volta ritornata alla normalità la popolazione, senza aver sviluppato l’immunità, non tornerebbe ad ammalarsi in massa?

Shashua e Shwartz hanno sviluppato dei modelli matematici di previsione, secondo i quali il rischio di mortalità nel loro modello non è superiore a quello di subire gravi traumi o morire in incidenti automobilistici. “E pur essendo consapevole del pericolo, la gente non rinuncia a guidare” sostiene Shashua.

Il punto debole di questa soluzione è che non è sicuro che la popolazione giovane non si ammali gravemente – ci sono parecchi casi di under-60 che hanno presentato sintomi gravi, e alcuni sono deceduti. E non è neanche sicura la durata dell’immunità, si parla di settimane o al massimo di mesi. Insomma, un terno al lotto: ma d’altronde il problema di questo virus è che lo si conosce davvero poco.

“Dobbiamo essere realistici” spiega Shashoua, “pensiamo davvero di poter tenere tutti in quarantena per un anno, un anno e mezzo, finché non ci sarà una cura efficace o un vaccino? E quali possono essere le conseguenze, anche sulla salute pubblica, di una depressione economica che metterà il Paese in ginocchio?”.

Insomma, la scelta proposta da Shashua e Shalev-Shwartz è quella del male minore, nella speranza che nel frattempo si materializzi la possibilità di disporre di cure efficaci o di vaccini ricavati in laboratorio o, ma è più improbabile, di una terapia sierologica ricavata dal plasma delle persone che sono guarite.

Una scelta non facile, ma forse necessaria, se lo scenario alternativo è una Grande Depressione, simile per portata a quella del 1929.

Il modello di Shashua/Shwarz prevede, come in Cina, il tracciamento degli spostamenti della popolazione, e molti illustri pensatori, in primis Yuval Harari hanno denunciato il pericolo della nascita di dittature alla Orwell.

Anche in Italia, sta emergendo la consapevolezza che senza un tracciamento individuale della popolazione, che consenta di identificare e seguire i contagiati, la fase 2 diventa problematica. Quali sono i reali pericoli di una misura di questo tipo?

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Tracciamento e privacy

Questo articolo è frutto della collaborazione con la rivista Reset 

di Amedeo Santosuosso, responsabile scientifico del Centro di Ricerca ECLT dell’Università di Pavia e Sara Azzini, fellow dell’ECLT dell’Università di Pavia

È chiaro che l’emergenza sanitaria durerà a lungo e che bisognerà ripartire, pur nell’emergenza. Il problema è come ripartire.

Il tracciamento individuale delle persone delinea gli assetti sociali del futuro: si pone a cavallo tra l’esigenza di controllo dell’epidemia in espansione (o in possibile ripresa) e il controllo di chi riprende a spostarsi.

Dal Ministero un concorso veloce: il mondo alla rovescia

Un folto numero di Ministeri e di importanti istituzioni anche internazionali, tra i quali spiccano quelli a cui è affidata la strategia di contrasto alla pandemia Coronavirus, lancia un concorso veloce (fast call) con lo scopo di “individuare, nei prossimi 3 giorni, le migliori soluzioni digitali disponibili relativamente ad app di telemedicina e assistenza domiciliare dei pazienti e a tecnologie e strategie basate sulle tecnologie per il monitoraggio ‘attivo’ del rischio di contagio, e coordinare a livello nazionale l’adozione e l’utilizzo di queste soluzioni e tecnologie, al fine di migliorare i risultati in termini di monitoraggio e contrasto alla diffusione del Covid-19” (qui la call).

Si cercano, dunque, idee di soluzioni informatiche e di connettività per la “teleassistenza per pazienti domestici, sia per patologie legate a Covid-19 sia per altre patologie, anche di carattere cronico”, per “tecnologie e soluzioni per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio”. Il tutto allo scopo di “agire in modo coordinato a livello nazionale”.

Un lettore in buona fede vedrebbe in questo scenario, un concorso di idee. Come quando, per esempio, per realizzare un nuovo quartiere o un nuovo ponte, non si parte dal bando per l’assegnazione dei lavori ma si chiede alla comunità scientifica di riferimento di proporre idee per quella realizzazione: chi ha l’idea migliore viene selezionato! E seguono i bandi.

Non ci sarebbe niente di male, in astratto, salvo il piccolo dettaglio che questa scelta del Governo ci fa scoprire che le istituzioni non sanno come affrontare l’emergenza Covid-19 e, meno ancora, la sua fase successiva, quella della ripresa, che necessariamente dovrà essere graduale. Tuttavia, leggendo meglio la fast call, si scopre che saranno privilegiate le concrete “proposte già realizzate e disponibili per l’implementazione in tempi estremamente brevi”: si cercano soluzioni ready-to-use. Sorge allora la domanda: soluzioni per fare cosa?

Pare che la fast call abbia riscosso molto successo e che siano giunte all’attenzione del Ministero alcune centinaia di proposte. Da un’analisi effettuata dalla rivista Wired, sembrerebbe che esse siano molto diverse l’una dall’altra per scopo, funzionalità, tipologie di dati e strumenti utilizzati, grado di sviluppo, collocazione e trasmissione dei dati, anche personali, che vengono raccolti.

In un futuro, che si annuncia riconfigurato dalla pandemia (sì, perché di questo si tratta!), la nostra ricostruzione, i nostri diritti e le nostre libertà sono nelle mani di qualcuno, (magari bravissimo) che ha una soluzione pronta? Non ci pare possibile, dobbiamo aver capito male.

E la privacy? Non è un ostacolo alla gestione dell’emergenza

Si dice, a torto, che il diritto alla privacy sia di ostacolo a una reazione rapida ed efficace. Ma la contrapposizione tra privacy e tutela della salute pubblica è artificiosa. La legislazione europea e italiana sulla privacy consente che siano realizzati anche sistemi di tracciamento e di controllo della popolazione purché si rispettino alcune procedure e alcuni limiti del tutto ragionevoli, che non sono certo di ostacolo alla prontezza di reazione e decisione pubblica.

Proviamo ad analizzare il problema con un minimo di attenzione. Tutte le proposte di cui si è sentito parlare e gli stessi scopi indicati nella fast call (telemedicina, assistenza domiciliare dei pazienti, monitoraggio “attivo”, tracciamento continuo e alerting), per poter funzionare, devono necessariamente raccogliere dati e trattarli. Alcuni di questi dati sono puramente quantitativi, cioè non sono riferibili a specifiche persone fisiche e, quindi, sono estranei alle regole della privacy. Altri, invece, sono riferibili a persone fisiche identificate o identificabili (ecco i dati personali!). E ancora, vi sono dati che riguardano la salute, rientranti tra le “particolari categorie di dati”, che il Regolamento Europeo sulla privacy, in vigore in Italia dal 2018, protegge in modo rafforzato, all’art. 9. Questo è il cuore delle norme sulla privacy, di cui (e ci par strano) la fast call nulla dice, fatto salvo un oscuro inciso finale su “trattamento informativa e/o consenso informato”.

Tuttavia, la tutela dei dati personali non impedisce il soddisfacimento delle esigenze di sanità pubblica. Infatti, il divieto di trattare “dati genetici e […] dati relativi alla salute” non si applica, e quindi può essere derogato, quando “il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica” (art. 9, comma 2, lettera i).

Il problema è, allora, chi identifica e definisce questi interessi? In quale misura e con quali modalità sono tutelati? La risposta alla prima delle due domande è intuitiva: è lo Stato che stabilisce che cosa debba essere considerato di interesse pubblico, anche in materia sanitaria.

La risposta alla seconda domanda è certamente più complessa (il D. Lgs. 196/2003, come emendato nel 2018, dopo l’entrata in vigore del GDPR, stabilisce che i trattamenti dei dati sanitari, “necessari per motivi di interesse pubblico […] sono ammessi qualora siano previsti […] nell’ordinamento interno, da disposizioni di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”; art. 2 sexies), ma il risultato è ugualmente chiaro: è necessaria una legge dello Stato o un atto avente forza di legge, che ponga i limiti della deroga e definisca l’interesse pubblico, e cioè “i tipi di dati che possono essere trattati”, “le operazioni eseguibili” e “le misure appropriate e specifiche per tutelare […] l’interessato” (articolo 2 sexies, D. Lgs. 196/2003, come emendato nel 2018, dopo l’entrata in vigore del GDPR). Il tutto alla luce dei principi generali da seguire sempre in materia di trattamento dei dati personali (art. 5 del GDPR), e cioè:

  • le finalità del trattamento, che devono essere legittime, determinate ed esplicite;
  • la minimizzazione dei dati, i quali devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto al raggiungimento delle finalità;
  • limiti alla conservazione, per cui l’arco di tempo di conservazione dei dati non potrà essere superiore al conseguimento delle finalità per le quali essi sono trattati;
  • la sicurezza del trattamento, anche attraverso la creazione di sistemi di protezione e di collocamento dei dati nei server situati all’interno del territorio nazionale, gestiti da soggetti che forniscano i più alti livelli di garanzia e adeguatezza nel trattamento dei dati.

Si potrebbe obiettare che il consenso dato dai diretti interessati possa essere la soluzione, superando la necessità di introdurre una deroga per legge al sistema ordinario. Questa soluzione, tuttavia, non ci convince, per due buoni motivi:

  • per essere efficaci sotto il profilo della tutela della salute pubblica, i sistemi di tracciamento della popolazione devono ricevere la massima diffusione. Rimettere l’utilizzo alla libera scelta dei cittadini (il loro consenso, appunto) può determinare il loro scarso utilizzo sotto il profilo numerico, con l’evidente rischio di non raggiungere l’obiettivo finale di tutela della collettività;
  • il sistema basato sul mero consenso potrebbe rivelarsi profondamente iniquo poiché non tutelerebbe coloro che non acconsentono al trattamento dei loro dati, i quali, a quel punto, potrebbero rimanere esclusi dai benefici connessi, ad esempio, all’uso della telemedicina e alla conoscenza del livello di esposizione al rischio di contrarre il virus. In altre parole, chi non aderisce al tracciamento non avrebbe una valida alternativa e non godrebbe di quei benefici, connessi alla tutela della salute pubblica, a cui, invece, ha diritto di accedere quale membro della collettività.

Il mondo rimesso in piedi: una proposta

Proviamo a delineare la sequenza corretta che una legge chiara (e che ha valore in Italia e in tutta Europa) come il GDPR indica.

Il Governo, sentito il Garante per la privacy, compie le sue scelte circa le necessità sanitarie ed epidemiologiche e circa i mezzi che intende adottare (finalità). Indica i limiti di tempo della deroga (in emergenza si può trattare anche di un periodo di tre mesi, all’esito del quale confermare la deroga o aggiustare il tiro), il tipo di dati strettamente necessari da trattare rispetto alla finalità, il soggetto che li debba gestire in sicurezza, sul territorio nazionale e in mano pubblica. Adotta quindi un decreto-legge, che il Parlamento può convertire in legge. È solo a questo punto che viene lanciata una call su scelte e linee guida ben precise, che garantiscano efficienza e rispetto dei diritti.

Di tale legge, tuttavia, non vi è alcuna traccia nel dibattito pubblico e, meno che mai, nella fast call da cui siamo partiti. Ciò ha comportato la presentazione di alcuni progetti della cui legittimità si dubita, francamente, sotto il profilo della loro compliance alla normativa privacy. Tra l’altro la fast call fa riferimento a telemedicina per pazienti cronici diversi da Covid-19: quale durata di trattamento per questi dati dobbiamo attenderci?

Si dirà, immaginiamo l’obiezione, che non sia facile per il Governo compiere le scelte circa le necessità sanitarie ed epidemiologiche e i mezzi da adottare. E chi potrebbe negarlo? Ma questo non è un buon motivo per rimettere il problema a soluzioni già costruite da società ed enti di ricerca.

Perché dunque non provare a fare le cose con ordine e con trasparenza? I vantaggi sarebbero enormi sia per la pubblica accettazione di un’importante compressione delle nostre libertà (si noti che in Corea del Sud il livello di accettazione sembra già calato fortemente!) sia per il Governo, che non potrebbe essere accusato di aver delegato a soggetti diversi scelte che gli competono per legge o di aver favorito qualcuno dei partecipanti. E se poi, dopo tre mesi, il bilancio dovesse richiedere un cambiamento, eventuali aggiustamenti saranno solo una dimostrazione della capacità di governare l’emergenza con prudenza ed elasticità.

L’emergenza sollecita l’adozione della logica trial and error anche in campo di decisione pubblica.

di Amedeo Santosuosso e Sara Azzini

CONTROVIRUS | Geopolitica e coronavirus

Lucio Caracciolo

Inizia con questo articolo la collaborazione tra BrainCircle e la rivista Reset che dal 1993 esplora le questioni politiche e culturali più importanti a livello internazionale.

Di seguito un’intervista di Umberto De Giovannangeli a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica, su scenari futuri e crisi attuali della pandemia.

Da più parti si è detto e scritto che nulla sarà più come prima, dopo il flagello del COVID-19. Sul piano delle relazioni e degli equilibri internazionali, quali scenari potrebbero configurarsi?

Le basi della partita restano le stesse. Bisogna vedere fino a che punto i principali protagonisti ne saranno intaccati. Il punto fondamentale ruota attorno alle relazioni Stati Uniti-Cina. Dopo aver perso parecchie posizioni e molto prestigio, la Cina è tornata all’offensiva, profittando anche del ritardo con cui Trump ha reagito al virus. Noi italiani siamo oggi il paradigma della sfida sino-americana. Pechino sta approfittando abilmente delle esitazioni americane per conquistare influenza e spazio nel nostro Paese con una politica degli aiuti che ha non solo un significato umanitario ma un effetto geopolitico. In parole povere, la Cina ha acquistato credito presso di noi e se noi ce ne dimenticassimo, ce lo ricorderà.

E la Russia di Putin? Anche Mosca è corsa in aiuto dell’Italia…

La fotografia degli ufficiali russi e italiani, che studiano cameratescamente insieme le vie di comunicazione lombarde, è il ritratto della sapiente strategia di Mosca, che a suo modo ricalca quella cinese. Con il sovrappiù di una storia di rapporti, simpatie, affari che risalgono indietro nei decenni. Anche Mosca ha guadagnato posizioni in Italia e ne farà sicuramente un uso adattato ai propri interessi.

In questo scenario, cosa resta delle vecchie alleanze?

Le alleanze nel senso stretto del termine, non esistono più. Certo, esiste la NATO, sulla carta di gran lunga la più grande organizzazione militare del mondo. In realtà, una famiglia separata di cui gli stessi americani si fidano poco. Se le cose dovessero volgere verso la guerra, gli Stati Uniti faranno da soli, usando al massimo polacchi, baltici e rumeni.

Il che ci porta dritto all’Europa. Sopravviverà al coronavirus?

Se per Europa intendiamo il continente, sì. Se invece intendiamo l’Unione Europea, pure, cioè come organizzazione dell’ostilità reciproca tra gli europei. Già si nota come il virus abbia approfondito la faglia tra le “formiche” nordiche e le “cicale” del Sud. Nemmeno la pandemia riesce a dissolvere la sfiducia.

Questa emergenza planetaria non pone anche un problema di leadership?

Esiste un problema di leadership in diversi Stati nazionali. Ma in questa emergenza, le leadership e comunque le autorità, non possono molto se non esiste una risposta omogenea da parte delle rispettive nazioni: basti vedere come leader quali Boris Johnson e Donald Trump abbiano virato la loro comunicazione di 180 gradi in pochi giorni. Per la verità, più Johnson che Trump.

L’“era” del coronavirus segna la fine dei sovranismi nazionali?

Non mi pare proprio. In questo momento il confronto politico-ideologico è sovrastato dall’emergenza e francamente non ne sentiamo la mancanza. Il nazionalismo esiste, esisterà e probabilmente sarà più forte alla fine di questa emergenza. L’idea stessa di una integrazione politica europea ne esce sostanzialmente intenibile. Sarà quindi molto arduo ma necessario ritrovare le ragioni della cooperazione in Europa e nel mondo, oltre le ormai squalificate organizzazioni regionali e internazionali.

Sul piano geopolitico, l’area che più investe l’Italia, è quella del Mediterraneo. Come si ridefinirà quest’area e quali ricadute avrà sul nostro Paese?

Sotto il profilo economico, e quindi sociale, il colpo sarà tremendo. Per un Paese come il nostro, così vincolato al commercio internazionale, il declino dei traffici e l’emergere di nuove barriere sono un prezzo quasi insuperabile. L’unica speranza è che questo regime, finita l’emergenza, possa essere davvero superato, ma quello che si vedeva già prima, e cioè un chiudersi di ciascuno in se stesso, potrebbe rivelarsi una tendenza più duratura del virus.

L’emergenza sanitaria costringe tutti a ripensarsi. Anche la comunicazione. Da direttore della più autorevole rivista italiana di geopolitica, quale è la sfida più impegnativa e pressante?

La sfida è quella di riuscire a mantenere uno sguardo non troppo emotivo, non troppo fissato sull’attualità, semmai orientato a indovinare, almeno per sommi capi, il dopo-virus. Esercizio quasi impossibile ma obbligato. A renderlo particolarmente arduo è la comunicazione ossessiva della crisi, che aumenta l’angoscia e ottunde il cervello.

A proposito di una comunicazione “ottundente”. Va molto in voga di questi tempi “virali” l’affermazione secondo cui saremmo tutti in guerra e tutti dalla stessa parte della barricata.

Questa non è una guerra, è una pandemia. La logica di guerra si applica a un nemico, non a un microbo. A forza di parlarne, però, creiamo una mentalità di guerra e seminiamo gli ingredienti sufficienti a produrla, Nel caso sarebbe probabilmente una sequela di guerre civili provocata dalle fratture interne alle società tormentate dal morbo.

Intervista di Umberto De Giovannangeli a Lucio Caracciolo