CONTROVIRUS | Amore, ironia e corona

di Viviana Kasam
Presidente di BrainCircle Italia

Un amico mi ha inviato una fotografia che lo ritrae con la sua compagna, vestiti da sera, il tavolo imbandito per una cena elegante.

Un altro, le immagini della sua casa piena di fiori freschi (si è messo d’accordo con un fiorista che glieli recapita ogni giorno fuori dalla porta). Mi hanno fatto riflettere sull’importanza di voler bene. Agli altri, ma soprattutto a se stessi. Chiusi in casa, ansiosi, sopraffatti dalle cattive notizie, con la sensazione che il cerchio si stringa intorno a noi (chi non ha un amico, un conoscente, un familiare positivo?), tendiamo a lasciarci andare, a trascurarci. Perché farsi belli, se tanto non si può uscire? Perché agghindare la casa, che è diventata la nostra prigione? E invece, quei gesti di cura fanno bene allo spirito. “La bellezza salverà il mondo”, lo ha detto magistralmente Dostoevskij. Ben lo sapevano i musicisti che fino all’estremo delle loro esistenze suonavano e componevano nei campi di concentramento: un gesto per ribadire la loro umanità contro chi voleva trasformarli in numeri. Ricordo l’anziana nonna di una mia cognata, vedova, che viveva sola a Camogli, sempre sorridente e radiosa. “Mi curo la pelle con prodotti naturali, cucino prelibatezze tutti i giorni, e apparecchio la tavola con la tovaglia di lino: sto bene perché mi voglio bene” mi confidò. È vissuta serena fino a novant’anni.

Amore è accettare le restrizioni cui siamo chiamati con responsabilità di se stessi e degli altri. Il ministro della salute israeliano, Naftali Bennet, in una intervista diffusa sui social, spiega che l’amore per i nonni è stare lontani, non facendo mancare la propria presenza virtuale e sollecitudine.

Amore è fare una telefonata agli amici che sappiamo essere soli.

Amore è un sorriso. Scambiarsi battute, vignette umoristiche, ridere, è un toccasana. Perché ci distrae per un attimo dai pensieri negativi, e perché stimola la produzione di endorfine, i neurotrasmettitori del piacere, che contrastano il cortisolo prodotto dall’ansia e riequilibrano il nostro sistema immunitario.

“E sia benedetto l’umorismo, il miglior modo di affrontare tutto questo. Quando riusciamo a ridere del Covid-19 proclamiamo, di fatto, che non siamo completamente paralizzati. Che abbiamo ancora libertà di movimento. Che continuiamo a combattere e non siamo vittime indifese (in realtà lo siamo, ma abbiamo trovato un modo di aggirare questa orribile consapevolezza, e persino di riderne)”.

Sono le parole che lo scrittore David Grossman ha pubblicato in un suo recente intervento sul Corriere della Sera. E che sintetizzano in poche righe l’essenza dell’umorismo ebraico, la witz. Un umorismo straordinario, sul quale sono stati scritti libri, realizzati spettacoli, e che Woody Allen ha portato in modo superbo sullo schermo. È la capacità di ridere di se stessi, delle proprie disavventure e persino disgrazie, nella consapevolezza che la vita è incerta e spesso crudele, che la felicità, quando c’è, è transitoria, il destino quasi sempre riserva sofferenza, persecuzioni, calamità, e l’unico modo di difendersi è relativizzare e sorridere. È l’umorismo di un popolo perseguitato e perdente, che sa che le vere vittorie sono quelle dello spirito.

Ogni cultura ride a modo suo. Gli italiani sono i più fantasiosi: canzoni, imitazioni, sketch. L’incontenibile Crozza. Aldo Giovanni e Giacomo con i loro viaggi immaginari. Totò riscoperto. Le serenate sui balconi. Il Nabucco cantato da un coro virtuale. Le bellezze del Paese con l’Inno di Mameli come colonna sonora. I francesi mettono in rete la Monna Lisa che finalmente riposa, o una modella sexy che ricava la mascherina dal triangolo del reggiseno… Gli americani non hanno bisogno di comici perché hanno Trump, ogni giorno una risata, segnalo la canzone “New York, New York” riscritta su di lui – una supercarica di endorfine, almeno per me – o il calendario delle sue dichiarazioni sul Covid-19, ognuna sul relativo quadratino del giorno in cui l’ha pronunciata, a partire da: “abbiamo tutto sotto controllo” a fine gennaio, “appena fa caldo finisce tutto” a metà febbraio (immagino che in California abbiano tirato un sospiro di sollievo), “presto arriveremo a zero casi” (fine febbraio), “avremo vaccini prestissimo e anche terapie” (inizio marzo), “siamo stati bravissimi” (metà marzo) fino a “questa è una pandemia, l’ho sempre detto” pochi giorni fa. Ridere per non piangere…

Gli inglesi non rinunciano alle freddure: aereo pieno zeppo, la voce dello speaker annuncia: “Buongiorno, sono il vostro pilota. Oggi lavoro da casa…” Il premier spagnolo annuncia: “Una buona notizia: l’infedeltà è scesa del 99,9%”.

Il Paese che forse produce l’umorismo più caustico è Israele. Tra le prime barzellette che ho ricevuto, questa, subliminale, di matrice tipicamente yiddish: “Rabbino, qual è la dieta che lei consiglia in caso di coronavirus? Il pane azzimo, ovviamente. Ovviamente perché? Perché scivola facilmente sotto la porta”.

Ma il nuovo umorismo israeliano pur avffondando le radici nell’ironia yiddish è molto diverso dalla tradizione. Lo spiega la giornalista Viva Sarah Press in un lungo articolo apparso sul suo blog: “è un umorismo cinico, senza barriere, un umorismo dark che si è sviluppato sotto i bombardamenti dei razzi, gli attacchi terroristici, le continue minacce di guerra” sostiene. Bersagli preferiti il governo e le misure di sicurezza (“saluta il Shin Bet, ormai è parte della nostra conversazione” è apparso subito dopo l’annuncio che i Servizi tracceranno gli spostamenti attraverso i cellulari). Tra i bersagli preferiti il Ministero dell’Istruzione ”il cui sito web continuamente va in tilt perché non è un sito porno e quindi non è abituato ad avere così tanti utenti contemporaneamente”, preso di mira per aver mandato gli insegnanti a casa nel divertente sketch dell’insegnante Shiri Kenisberg Levi, diventato virale in poche ore, nei panni di una madre con i figli a casa. “Se non moriremo di coronavirus moriremo di insegnamento a distanza” sbotta dopo un minuto e mezzo di improperi.

“Una sana risata aiuta a mettere tutto in prospettiva e, trascinandoci in una diversa zona emotiva, può aiutarci a ristrutturare i nostri pensieri negativi” sostiene Jeff Gordon, clown therapist e fondatore di un programma di Happiness Training, l’allenamento alla felicità.

In questo momento ne abbiamo proprio bisogno. E i social sono di grande aiuto. Avete notato? Ai selfies, alle blaterazioni dei no vax (finalmente zitti e in spasmodica attesa di un vaccino) si è sostituita una rete di solidarietà, di persone che offrono lezioni di yoga o di meditazione, consegne a domicilio, momenti di socializzazione, lezioni di bridge, book clubs, sostegno psicologico ed entertainment musicale (sublimi La Scala e il Met che mettono in rete le opere più belle).

E se volete finire con un sorriso, andate a cercare l’Agenda da #Quarantena pubblicata da Paolo Camilli su Instagram: irresistibile, un accurato ritratto di ciò che sta succedendo in rete.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Clorochina, una molecola antica

Antonio Malgaroli, psichiatra e Professore Ordinario di Fisiologia Università Vita-Salute San Raffaele

Con la diffusione del Coronavirus (COVID19) sta crescendo il nostro livello di ansia. Abbiamo ovviamente paura di contrarre l’infezione, vorremmo riconoscerne i sintomi, sapere quali medicine prendere e non prendere. Molte terapie sono in fase di sperimentazione clinica, compresi i vaccini, alcune purtroppo sono già state messe in discussione (per esempio l’associazione Lopinavir–Ritonavir; Ref. 1). Il presidente americano Donald Trump ha parlato recentemente della clorochina, un farmaco utilizzato da quasi un secolo nella terapia della malaria e di alcune malattie autoimmuni quali l’artrite reumatoide. Trump ne ha parlato in termini entusiastici, a suo avviso questo farmaco sconfiggerà l’epidemia, parole che hanno destato grande interesse ma anche molto scetticismo. Anthony Fauci, il direttore del National Institute of Allergy and Infectious diseases, consigliere di Trump, lo ha subito smentito dicendo “le informazioni sulla clorochina sono ancora aneddotiche, sono necessari dei trial clinici controllati per fornire delle risposte chiare”. Ma a ben guardare, la clorochina è già presente in molti protocolli clinici oggi utilizzati, forse vale la pena capirne qualcosa di più.

La clorochina deriva dal chinino, una molecola che si estrae dalla corteccia della Chincona, un albero molto abbondante sulle Ande tropicali (Ref. 2). In Sudamerica gli estratti della corteccia di Chincona vengono usati da sempre come antimalarici, antinfiammatori e febbrifughi (Figura 1). Nel 1600 la corteccia fu importata dai Conquistadores Spagnoli e da li si il suo utilizzo si diffuse in tutta Europa.

Figura 1: La corteccia della Chincona, molto ricca di alcaloidi tra cui il chinino. 

Come sappiamo, l’acqua tonica e tanti liquori vengono addizionati con il chinino. Nel diciannovesimo secolo, la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, a conoscenza delle proprietà antimalariche del chinino, ben sapendo che l’acqua con il chinino non è molto palatabile, perché troppo amara, ci aggiunse dello zucchero, del limone e un goccio di gin, inventando il celebre cocktail Gin Tonic. Il chinino ha però la cattiva abitudine di accumularsi nell’organismo diventando pericoloso. Se lo si prende regolarmente per prevenire la malaria, non sono infrequenti il vomito, la diarrea, gli acufeni uditivi, i disturbi visivi, e ancora peggio, nei soggetti predisposti, delle gravi aritmie cardiache. La tossicità del chinino portò così allo sviluppo e allo studio di derivati chimici tra cui clorochina (Figura 2), messa a punto all’inizio del 900, presso la ditta farmaceutica tedesca Bayer AG, da un ricercatore di origini italiane, Johann Andersag. Da questa molecola venne poi sviluppata una variante con un migliore indice terapeutico, l’idrossiclorochina, oggi regolarmente usata nel trattamento cronico dell’artrite reumatoide e del lupus sistemico eritematoso (Ref. 3-4). Ma come funziona questa molecola e perché dovrebbe prevenire l’infezione malarica?

Figura 2: La struttura chimica del chinino e del suo derivato clorochina.

Tutte le cellule eucariote possiedono al loro interno un compartimento composto da piccole vescicole di trasporto denominati endosomi. Queste vescicole, sempre in continuo movimento, garantiscono gli scambi tra interno ed esterno della cellula. Una cellula comunica, mangia, cresce di dimensione, si libera dei rifiuti interni grazie al lavoro di questi organelli. Questi endosomi hanno un pH acidico al loro interno. La clorochina, un composto basico, ne attraversa liberamente la membrana, ma appena l’ha superata, per colpa del pH acido, si carica positivamente rimanendo intrappolata al suo interno, da lì poi confluisce nei lisosomi, gli organelli digestivi della cellula. Più tempo passa e più clorochina si accumulerà, modificando l’attività degli endosomi e le capacità digestive della cellula. Il Plasmodium Falciparum, il parassita della malaria, quando viene esposto alla clorochina l’accumula nei suoi endosomi e così perde la capacità di assimilare e digerire l’emoglobina, di cui si nutre e che mangia in grande abbondanza.

Questa molecola mi riporta indietro nel tempo alla metà degli anni ’80. Mi ero appena laureato in Medicina e Chirurgia, mi stavo specializzando in Psichiatria, e svolgevo un’attività di ricerca nel laboratorio del neurofarmacologo Jacopo Meldolesi. In quegli anni avevo avuto la fortuna di conoscere lo scienziato americano di origini cinesi Roger Y. Tsien, con il cui fratello Richard W. Tsien andai poi a lavorare qualche anno più tardi presso l’Università di Stanford. A quei tempi, misurare la risposta cellulare a un qualsivoglia composto era molto arduo, se non impossibile. Roger aveva appena inventato delle molecole innovative in grado di produrre dei segnali luminosi quando le cellule venivano attivate, aprendo la strada a uno studio sistematico dei meccanismi di controllo della segnalazione intracellulare. Questo lavoro, portato avanti con lo sviluppo di sensori proteici ancora più selettivi, gli valse il premio Nobel per la Chimica nel 2008. I composti sviluppati da lui negli anni ’80, per qualche motivo non funzionavano bene, io scoprii che questo dipendeva dal loro intrappolamento negli endosomi. Per capirlo e trovare una soluzione al problema, utilizzai vari trucchi farmacologici e tra questi la clorochina. Come si vede dalla Figura 3, mentre in situazioni normali i coloranti di Roger Tsien si accumulano all’interno di piccoli organelli intracellulari che danno un aspetto puntinato alle cellule, quando le cellule vengono trattate con clorochina questo non succede e la cellula acquista una colorazione omogenea (Ref. 5). Alterare il pH degli endosomi impedisce quindi alle cellule di accumulare al loro interno queste molecole.

Figura 3: La clorochina blocca l’accumulo di molecole fluorescenti negli endosomi. Gli endosomi appaiono come dei puntini colorati all’interno delle cellule in condizioni controllo (pannelli H-I) ma non sono più visibili se le cellule sono state pretrattate con clorochina (pannello J). Tratto daMalgaroli et al., 1987 (Ref.5).

Ma cosa c’entra tutto questo con il COVID-19? Perché mai la clorochina dovrebbe funzionare come farmaco antivirale? Il COVID-19 è un organismo ultra semplificato, composto dal materiale genetico (RNA) ricoperto da un semplice involucro proteico, a forma di corona, da cui il nome. Il virus non possiede certo degli endosomi al suo interno. Le evidenze sperimentali indicano però che i virus di questa famiglia, per infettare le cellule, debbano tutti essere prima mangiati o endocitati. Le cellule in questione sono le cellule superficiali della nasofaringe, della congiuntiva oculare e poi da lì a cascata tutte quelle che ricoprono i bronchi e formano gli alveoli polmonari. Una volta entrati negli endosomi di queste cellule, a seguito di alcune reazioni enzimatiche, perdono l’involucro proteico, liberando il materiale genetico che permetterà al virus di moltiplicarsi in modo copioso (Ref. 6). Quindi l’endosoma è una sorta di cavallo di Troia che porta all’interno il nemico: interferire con la sua attività porta inevitabilmente a ridurre il numero di particelle virali prodotte durante l’infezione. Questa ipotesi è supportata da chiare evidenze sperimentali ottenute in vitro, che dimostrano come la clorochina abbatta il numero di particelle virali prodotte dopo l’infezione virale con COVID-19 e con altri virus della stessa famiglia (Figura 4; Ref. 7-10).

Figura 4: Effetti della clorochina sull’infezione da COVID-19 in una popolazione di cellule in coltura. Nei 4 pannelli alla estrema destra, le cellule sono colorate in verde quando sono presenti al loro interno delle particelle virali COVID-19. Notare come con il trattamento con clorochina si riduca il numero di cellule verdi rispetto al controllo (DMSO; ultimo pannello in basso a destra). Il grafico sulla sinistra mostra le percentuale di inibizione della crescita virale (pallini rossi) e della tossicità (quadrati bleu) in funzione della concentrazione di clorochina. Alle dosi qui usate, l’effetto terapeutico si ottiene per dosi non tossiche per le cellule. Tratto da Wang M. et al., 2020 (Ref. 7).

Da queste considerazioni, sembra ragionevole pensare che la clorochina possa funzionare anche in vivo. Purtroppo, non sempre i risultati ottenuti in vitro si traducono in effetti clinicamente rilevanti. L’effetto terapeutico dipende molto dagli effetti indotti sulla quella miriade di organi e apparati del corpo umano che non sono presenti in una coltura cellulare, primo fra tutti quello immunitario, che deve funzionare correttamente per combattere le infezioni.

Al momento, come sostiene giustamente Anthony Fauci, mancano i risultati di un solido trial clinico. Si stanno però accumulando tante piccole evidenze sperimentali, che ci fanno ben sperare e che motivano un serio studio sulla reale efficacia clinica di questo farmaco. Molti protocolli terapeutici applicati in Cina, nella Corea del Sud, in Italia, in Francia, negli Stati Uniti includono già l’idrossiclorochina (che è meno tossica della clorochina e più efficace in vitro contro i virus SARS-CoV-2), ma questo sulla base di un criterio ex adiuvantibus (Vedi per esempio Ref. 11). Un recente studio francese (Ref. 12) ha analizzato l’efficacia di questa terapia su un campione di pazienti con sintomatologia respiratoria COVID-19, comparando l’efficacia della idrossiclorochina da sola o in combinazione con l’antibiotico azitromicina (un macrolide con una struttura chimica simile all’eritromicina). Il dato è ancora molto preliminare, i numeri sono ancora molto piccoli (36 pazienti), nel lavoro purtroppo non si parla di efficacia clinica, ma comunque è interessante che la combinazione idrossiclorochina-azitromicina elimini la positività al virus molto più rapidamente rispetto all’assenza di qualunque trattamento.

Da quello che abbiamo detto sul meccanismo d’azione, è molto ragionevole pensare che l’idrossiclorochina sia più adatta a prevenire o a limitare l’infezione piuttosto che a curarla, specie quando si abbia a che fare con casi gravi e conclamati. A mio avviso, sarebbe molto importante valutare l’efficacia di questa molecola nella profilassi della malattia con trial clinici ad hoc. Visto che l’utilizzo della idrossiclorochina è molto diffuso in altri contesti, si potrebbe già da subito valutare l’incidenza di questa malattia in questa popolazione di soggetti. Certo, non tutti i soggetti possono assumere questo farmaco per tempi prolungati. Gli effetti collaterali prima citati, in primis le aritmie cardiache legate essenzialmente alla sindrome del QT-lungo, richiedono una valutazione attenta prima del suo utilizzo. In assenza di vaccini e di altre terapie efficaci, rappresenterebbe comunque una misura precauzionale ragionevole per molte persone nel caso i risultati clinici fossero positivi.

Indipendentemente da questi effetti, la clorochina sembra avere anche delle altre proprietà terapeutiche molto interessanti. Presenta un’attività antivirale diretta non ancora ben compresa nel dettaglio, forse legata alla modifica del pH intracellulare o a una interazione con il materiale genetico del virus. Ancora più interessante il suo effetto immunomodulatorio, che porta a ridurre la produzione e/o il rilascio di alcune importanti citochine pro-infiammatorie, tra queste il TNF-alfa e l’interleuchina 6 (Ref 3-4), che mediano le complicanze di molte malattie virali (Ref. 13). I virus della famiglia del COVID-19 inducono importanti lesioni istopatologiche a livello dei polmoni che sono verosimilmente legate a un qualche meccanismo immuno-mediato, verosimilmente associato al rilascio massivo e incontrollato di queste citochine proinfiammatorie, un fenomeno che in gergo viene denominato tempesta citochinica (Ref. 13). Queste reazioni non vengono inibite in modo significativo dalle classiche molecole antinfiammatorie ed ecco perché le clorochina diventerebbe doppiamente interessante. In conclusione, la clorochina sembra vivere una seconda giovinezza, l’importante è che il suo utilizzo venga prima razionalizzato sulla base di una seria e robusta ricerca clinica sull’uomo e da una migliore comprensione della patogenesi dell’insufficienza respiratoria indotta dal COVID-19.

di Antonio Malgaroli

Bibliografia e link

  1. Cao B. et al. A Trial of Lopinavir-Ritonavir in Adults Hospitalized with Severe Covid-19. N Engl J Med. 2020 Mar 18. 
  2. Shinji Funayama, Geoffrey A. Cordell (2014) Alkaloids: A Treasury of Poisons and Medicines. Academic Press 
  3. Schrezenmeier E, Dörner T. Mechanisms of action of hydroxychloroquine and chloroquine: implications for rheumatology. Nat Rev Rheumatol. 2020 Mar;16(3):155-166. 
  4. Plantone D, Koudriavtseva T. Current and Future Use of Chloroquine and Hydroxychloroquine in Infectious, Immune, Neoplastic, and Neurological Diseases: A Mini-Review. Clin Drug Investig. 2018 Aug;38(8):653-671. 
  5. Malgaroli A, et al. Fura-2 measurement of cytosolic free Ca2+ in monolayers and suspensions of various types of animal cells. J Cell Biol. 1987 Nov;105(5):2145-55. 
  6. Mainou BA. The Orchestra of Reovirus Cell Entry. Curr Clin Microbiol Rep. 2017 Sep;4(3):142-149. 
  7. Wang M, CaoR, ZhangL, et al. Remdesivir and chloroquine effectively inhibit the recently emerged novel coronavirus (2019-nCoV) in vitro[J]. Cell Res. 2020 Mar;30(3):269-271. 
  8. Liu J, Cao R, Xu M, Wang X, Zhang H, Hu H, Li Y, Hu Z, Zhong W, Wang M. Hydroxychloroquine, a less toxic derivative of chloroquine, is effective in inhibiting SARS-CoV-2 infection in vitro. Cell Discov. 2020 Mar 18;6:16. 
  9. VincentMJ, BergeronE, BenjannetS, et al. Chloroquine is a potent inhibitor of SARS coronavirus infection and spread[J]. Virology Journal, 2005, 2(1):69. 
  10. KonoM, TatsumiK, ImaiAM, et al. Inhibition of human coronavirus 229E infection in human epithelial lung cells (L132) by chloroquine: involvement of p38 MAPK and ERK[J]. Antiviral Res, 2008, 77(2):150-152. 
  11. https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/hcp/therapeutic-options.html
  12. Gautret et al. (2020) Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID‐19: results of an open‐label non‐randomized clinical trial. International Journal of Antimicrobial Agents – In Press 17 March 2020 https://www.mediterranee-infection.com/hydroxychloroquine-and-azithromycin-as-a-treatment of-covid-19/
  13. Mehta P, McAuley DF, Brown M, Sanchez E, Tattersall RS, Manson JJ COVID-19: consider cytokine storm syndromes and immunosuppression. Lancet. 2020 Mar 16. pii: S0140-6736(20)30628-0.

CONTROVIRUS | La generosità al centro

Elisa Bortoluzzi Dubach, consulente di Relazioni Pubbliche, Sponsorizzazioni e Fondazioni

Come l’emergenza sanitaria cambia il nostro modo di aiutare gli altri

La pandemia del Covid-19 si sta manifestando non solo come un’emergenza sanitaria globale, ma anche come una grande sfida di leadership e di comunicazione istituzionale che, con tutta probabilità, nei prossimi anni modificherà alcuni equilibri geopolitici.

Quello che possiamo osservare fin d’ora è che alla difficoltà dei governi di pianificare una strategia di gestione dell’emergenza è corrisposto uno straordinario vento di altruismo, spontaneo e dal basso. La risposta dei cittadini delle società occidentali alla malattia è stata immediata e consistente: ovunque si sono aperti canali per donare denaro, beni e servizi, a favore delle strutture sanitarie, della protezione civile, dei governi locali. Aiuti che servono a reperire in fretta materiale sanitario (mascherine, ventilatori, …) ma anche tutto ciò che può aiutare a sostentare il lavoro inarrestabile di medici e infermieri che osserviamo ogni giorno.

A livello globale l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Fondazione Nazioni Unite e Swiss Philanthropy Foundation hanno lanciato il fondo Solidarity response fund per raccogliere donazioni a favore di interventi per sconfiggere il virus nei vari Paesi. Dalla ricerca sullo sviluppo di vaccini e terapie farmacologiche alla raccolta dei dati sulla diffusione del virus e l’acquisto di dispositivi medici e apparecchiature per le terapie intensive, il fondo si sta rapidamente espandendo e, recentemente, Facebook ne ha annunciato l’adesione con una donazione di 10 milioni di dollari.

In Italia, il paese per ora maggiormente colpito dal Covid-19 (stando ai dati ufficiali), Assifero e Italia non profit hanno creato la piattaforma digitale Coronavirus: filantropia a sistema per aggregare tutte le informazioni sulle donazioni già effettuate e le indicazioni per chi volesse donare. Ad oggi sono stati devoluti oltre 366 milioni di euro con 237 iniziative mappate e 198 donatori/promotori. Di queste iniziative oltre la metà sono a favore di ospedali, seguono enti non profit, cittadini/famiglie e la protezione civile. Si tratta prevalentemente trasferimenti in denaro (48,9%) e secondariamente di donazioni di beni, di servizi, fondi e bandi. Le donazioni provengono per la maggior parte da aziende (51,4%), poi da fondazioni (30,8%), da enti non profit (8,8%), da privati (3%) e altre categorie (6%).

Tutto questo dimostra che la solidarietà non è solo un principio etico formale che compare nelle nostre carte costituzionali, ma soprattutto un impegno tangibile, un valore sincero che ci appartiene come esseri umani che convivono in una società dove ogni singola persona deve essere tutelata. La pandemia abbassa le gerarchie e riduce le distanze sociali e facilita quel tipo di comunicazione empatica che i maestri zen giapponesi indicano come “i shin den shin”, “da cuore a cuore”. Una comprensione reciproca non verbale che unisce gli esseri umani quando si riconoscono come simili, incuranti delle differenze di ogni tipo che in condizioni di normalità tenderebbero a separarci.

“Mai come ora di fronte alla dolorosissima lezione che la pandemia ci sta insegnando c’è bisogno di fare sistema, di mettere in rete, di promuovere circolarità delle informazioni e possibilmente attivare sinapsi e innescare collaborazioni per proteggere i più vulnerabili”, ha dichiarato Carola Carazzone, segretario generale di Assifero.

Certo è che nell’individualità di ciascuna delle nostre case, abbiamo tutti un’occasione irripetibile per fermarci un momento e riflettere sulla nostra contemporaneità e ciò che desideriamo immaginare per il prossimo futuro. Forse, come afferma l’antropologo Marco Aime, qualche presupposto dell’antropocentrismo estremo delle nostre società cadrà e lascerà spazio a proposte più ecologiche e sostenibili. Qualcosa che la generation Z avverte molto bene già da qualche tempo.

Mai come in questo momento di emergenza ciò che conta è essere presenti: chiudersi in casa non significa ritirarsi. C’è spazio per ognuno di noi, ognuno per quello che sa e può fare, con ordine e impegno attivo.

Io credo che la filantropia sia e debba continuare a essere sinonimo di solidarietà, generosità e unione. La generosità è un motore potente per avviare nuove imprese, raggiungere mete inedite, creare stimoli diversi. Come scrisse Pier Mario Vello nel suo ultimo libro La società generosa:

“molto prima delle leggi, che regolano i rapporti tra cittadini, e molto più estesamente dei rapporti economici, che muovono le relazioni tra soggetti dotati d’interesse, la generosità si trova alla base dello “stare insieme” dei soggetti civili, siano essi persone o istituzioni. Esiste concretamente la possibilità di realizzare società che siano creative, efficienti e profittevoli e allo stesso tempo basate su espliciti rapporti di generosità non confinata”.

Questa è adesso la nostra opportunità. Lavoriamoci insieme!

di Elisa Bortoluzzi Dubach

CONTROVIRUS | Linee guida internazionali

Clelia Di Serio, Professore Ordinario di Statistica Medica ed Epidemiologia
Università Vita-Salute San Raffaele Milano, Università della Svizzera Italiana, Facoltà di Scienze Biomediche.

Il momento storico inedito che stiamo vivendo, tra le tantissime difficoltà che dobbiamo affrontare da tutti i punti di vista, ci mette anche di fronte a un bombardamento di informazioni, numeri e termini tecnici che spesso, invece di aumentare la conoscenza, aumentano la confusione non avendo gli strumenti per gestirli. Vorrei cercare di seguito di chiarire, insieme ad alcune considerazioni generali sull’emergenza COVID-19 anche una terminologia solitamente riservata agli addetti ai lavori e che oggi è diventata di utilizzo “comune”.

Trovarsi come epidemiologi e statistici ad affrontare una catastrofe emergenziale come quella che stiamo vivendo mette in grandissima difficoltà per l’impossibilità di riuscire ad affidarsi a un “dato” che sia davvero “informativo” e che permetta di applicare quella logica scientifico-deduttiva tipica della nostra disciplina. Chiunque si rivolga a noi in questi giorni ci pone quasi sempre le stesse domande: avete modelli per l’evoluzione dell’epidemia? Quando ci sarà il picco? Perché l’Italia, e in particolare la Lombardia, mostrano una suscettibilità all’infezione e un tasso di mortalità così fuori sia da qualunque previsione sia da qualunque rapporto con i dati di altre nazioni? È vero che l’Italia è affetta da un COVID-19 mutato e più aggressivo? Quando finalmente terminerà l’epidemia e torneremo alla normalità?

Sono domande fondamentali cui non è facile dare una risposta alla ricerca della quale tutti gli scienziati del mondo stanno lavorando giorno e notte. Dal punto di vista dell’epidemiologia, epi-demos-logos, “disciplina che studia la popolazione”, stiamo cercando di comprendere quali siano i fattori di rischio che possano determinare da un lato una maggiore o minore diffusione del virus e dall’altro abbiano impatto su una maggiore o minore mortalità e l’enorme differenza di suscettibilità individuale.

Quando l’emergenza Covid-19 è passata – anche da definizione dell’OMS – da essere epidemica (frequente nella popolazione ma localizzata e limitata nel tempo) a pandemica (estesa a tutta la popolazione) ci si è chiesto immediatamente come suggerire e testare modelli interpretativi basati sui dati i quali riescano a individuare regolarità e correlazioni tra fattori epidemiologici e ci aiutino ad assegnare delle probabilità a scenari futuri.

In mezzo alla bulimia informativa cui tutti sono sottoposti, c’è un concetto fondamentale che ormai anche gli addetti ai lavori hanno compreso: avere tanti dati a disposizione non significa avere tanta informazione. Una delle basi per riuscire a tradurre in informazione il dato è la rappresentatività del dato. Il grandissimo problema che stiamo sperimentando in questi giorni è la profonda mancanza di un’agenzia regolatoria europea e mondiale che dia degli standard di rilevazione dati sul COVID-19. Questo non ha niente a che fare con l’autonomia degli stati ma a che fare con la capacità di fornire linee guida comuni che permettano il data-sharing, ovvero la condivisione dei dati. In materie economiche questo esiste, ovvero esistono indicatori del reddito universali che permettono di confrontare le basi dati nel mondo. La mancanza di indicatori universali sul dato biomedico è stato sempre un enorme problema, ma nella situazione che stiamo affrontando diventa un problema tragico che si traduce nell’impossibilità di utilizzare l’esperienza altrui per evitarne gli errori e imitarne i pregi.

Come misuriamo quindi la “pericolosità” del coronavirus?
Innanzitutto bisogna distinguere tra pericolosità intesa come “velocità di diffusione/infezione” o intesa in termini di tassi di “mortalità” e “fatalità”.
La velocità di diffusione dipende, oltre che da elementi demografici e dalla aggressività del virus, dalla probabilità di contatto e dal numero di contatti, legati a fattori socio-culturali che sicuramente nelle società latine, basate molto sulla socialità e sulla famiglia, trovano un fattore peggiorativo e aggravante molto pesante. Infatti Italia e Spagna sembrano seguire un trend simile. Ma questo non è tutto. Molto spesso le politiche di sanità pubblica possono avere effetti molto gravi sulla probabilità di contagio se non sono accompagnate da una tempestività determinante. “Pre-annunciare” per svariati giorni la chiusura degli alimentari, causa ammassamenti immediati, cosi come la “fuga” di notizie su una chiusura delle frontiere regionali provoca interi treni di cittadini fuori-regione che “scappano” per tornare a casa diffondendo il contagio, e ancora diminuire le corse dei mezzi pubblici causa affollamenti nelle carrozze ai pochi orari disponibili. Le manovre di contenimento del contagio non sono affatto semplici né da prendere né da comunicare e possono avere in pochissime ore effetti devastanti. In una situazione come quella che stiamo vivendo comprendiamo di essere completamente impreparati a manovre di tipo emergenziale provenendo da un periodo di oltre 70 anni di pace e relativa prosperità.
La diffusione e l’aggressività determinano la pericolosità del virus misurata con il tasso di mortalità e di fatalità.

Il tasso di mortalità indica la percentuale, tra tutte le persone malate, di quelle che moriranno a causa della malattia quindi si riferisce alla popolazione media presente in un certo periodo. In altre parole, misura la probabilità che una malattia uccida chi ne è affetto, e quindi è un importante indicatore della “gravità” di una malattia e della sua importanza come problema di salute pubblica. Per cui calcolare il tasso di mortalità mentre l’epidemia è in piena evoluzione è molto difficile.

Il tasso di fatalità è il vero indice di gravità della malattia ed è più specifico e di solito viene riferito all’area e al profilo dei casi e soprattutto all’età. Spesso, con i virus di tipo “influenzale” è molto difficile isolare una fatalità specifica in fasce più fragili, in quanto qualunque tipo di virus o batterio rappresenta una minaccia, spesso letale, per i soggetti gravemente compromessi sanitariamente, basti pensare alla potenza devastante su anziani o pazienti immunodepressi delle cosiddette infezioni ospedaliere come quelle provocate dal comunissimo staffilococco aureo.
Anche la stima quindi del “tasso di fatalità” è comunque difficilissima ad oggi e può essere data solo in modo impreciso, in continua evoluzione.

La Fatalità = numero di decessi “specifici” / numero di casi “confermati” dipende dal numeratore e dal denominatore. Per quanto riguarda il denominatore, sicuramente è una sottostima e ad oggi i 300.000 casi sono solo una sottostima di un denominatore molto più vasto. I casi “confermati” stanno evolvendo con l’evoluzione dei criteri diagnostici per “confermare” la patologia: ciò che indubbiamente può far variare moltissimo il tasso di fatalità. Infatti, il numero di casi “confermati” in un primo momento in cui l’epidemia non era ancora “pandemia” comprendeva con maggiore probabilità anche gli infetti asintomatici che venivano testati solo in quanto possibili contatti di altri casi sintomatici.

Con il precipitare della gravità della situazione i test vengono fatti quasi ormai ai casi ospedalizzati e viene previsto un protocollo telefonico di assistenza “a casa” per i casi non gravi (spesso il medico di base monitora a distanza la febbre ritenendo 37, 5 gradi come la soglia sotto cui lasciare un decorso “home”). Tuttavia i test diagnostici – basati su tecniche di biologia molecolare – non sono ancora sufficientemente affidabili soprattutto nella rilevazione dei cosiddetti “falsi negativi” ovvero coloro che risultano negativi pur essendo infetti. Inoltre i test possono anche essere molto diversi in base alla compagnia farmaceutica che li brevetta con diversi livelli di sensibilità (probabilità che un malato risulti positivo al test) e specificità (probabilità che un sano risulti negativo al test) cosa che rende poco confrontabili gli stessi risultati dei test provenienti da nazioni diverse. Ad oggi quindi i dati sui “casi confermati” hanno seguito continue variazioni nella definizione, e i dati cinesi non sono confrontabili con quelli italiani o quelli svizzeri.

Ma il problema permane anche nella definizione del numeratore ovvero dei “decessi specifici”. L’annotazione della “causa di morte” è una delle cose più complesse nelle malattie infettive che spesso si sovrappongono, soprattutto a livello nosocomiale, a patologie pregresse. Dal punto di vista del medico è una domanda praticamente irrilevante, perché chiunque abbia scelto di curare pazienti e provare a salvare vite umane potrebbe non essere eccessivamente focalizzato sull’annotazione precisa della causa di morte ma solo sul come evitarla. Ogni decesso è una sconfitta, punto e stop. La domanda diventa però lecita se trasportata nel campo statistico: perché ancora una volta coinvolge le modalità di raccolta dei dati. In Italia è stato adottato finora un criterio estensivo: ogni paziente deceduto e positivo al test è stato comunicato come un “decesso Covid-19”. Addirittura nella casistica sono entrati decessi con tampone eseguito “post mortem”. Adesso, nella fase più difficile dell’epidemia, i tamponi sono stati riservati a chi ha una sintomatologia importante e necessita di ricovero: si tratta di una modifica nel criterio intervenuta da poco. In Germania il decesso viene dall’inizio classificato come decesso da coronavirus se è attribuibile a problemi respiratori producendo quindi un dato molto poco paragonabile.
Pertanto fare una stima del tasso di mortalità o fatalità diventa molto difficile in questa fase dell’infezione.

Molti stati (Sud Corea e UK) hanno deciso di bloccare la diffusione del virus puntando sulla cosiddetta “immunità di gregge”. Di che cosa si tratta? L’immunità, da un virus o da un batterio, interviene quando il sistema immunitario abbia sviluppato anticorpi per combattere il virus o naturalmente o tramite vaccino ed è pronto a contrastarlo per evitare una ricaduta o una infezione. L’immunità previene anche la trasmissione: il proprio corpo non può più essere un vettore per il virus e non può trasmetterlo nemmeno a individui non immuni. Quando in una comunità ci sono molti che rappresentano un “vicolo cieco” per il virus, allora lo spread dell’infezione rallenta fino eventualmente a fermarsi del tutto. Questo rappresenta una “immunità di gregge”. Il problema però è: a che prezzo avviene questo processo? Dipende da un lato dalle caratteristiche del virus che ancora non sono del tutto note. La cosiddetta “ricaduta” nell’infezione dipende dalla “memoria immunologica” del nostro corpo e da quanto venga intaccata specificamente dal virus. Infatti la resistenza alla seconda infezione riflette una condizione durevole di memoria immunologica contenuta nei linfociti T e B. Non sono però rarissimi i casi di cosiddetta “amnesia immunitaria” provocata da un virus, ovvero un effetto di immunodepressione generale o parziale che può portare il nostro organismo a “dimenticare” la memoria immunitaria, ovvero gli anticorpi acquisiti dopo anni di battaglie contro virus e batteri con le proprie risorse naturali o con i vaccini. Proprio lo scorso anno in novembre Science pubblicava evidenze su questo effetto amnesico dovuto al virus del morbillo, che infatti si presenta come pericolosissimo per gli adulti e gli anziani. Quindi, in assenza di approfondita conoscenza di un virus, puntare qualunque politica sanitaria, come nel caso dell’Inghilterra, sul perseguimento della immunità di gregge rischia di essere estremamente pericoloso per una popolazione.

Cosa si può concludere allora sull’andamento di questa pandemia e sul confronto di pericolosità della stessa tra i vari stati? E cosa sui possibili interventi?

Sono tanti i dati che noi statistici ed epidemiologi stiamo raccogliendo in tutte le parti del mondo per riuscire a simulare una curva di sviluppo del virus nel tempo. Abbiamo fattori di rischio ovvi, come età e fumo. Altri meno ovvi, come il peso e il genere, per cui le donne sembrano avere in media una probabilità di ammalarsi sotto il 30% rispetto agli uomini. E infine alcuni ancora molto dibattuti, come il ruolo delle polveri sotti (PM10) che potrebbero agire in tanti modi, al pari del fumo, depositandosi man mano nell’apparato respiratorio, fino a danneggiarlo o indebolirlo rendendolo più “prono” a sviluppare polmoniti interstiziali dovute al COVID-19.

In conclusione, in realtà non si può inseguire il singolo dato, ma è solo dalla combinazione di molte informazioni che si potrà capire come si espande, come uccide e come si può fermare questo virus. Sicuramente il fatto che in Germania il 70% dei contagiati fosse nella fascia di età compresa tra i 20 e i 50 anni, con un’età media intorno ai 40 (da noi sfiora i 70) è un dato sorprendente e legato molto sia alla componente demografica (gli italiani sono una popolazione più longeva) e culturale (gli anziani vivono in Italia con le famiglie) sia a una di sanità pubblica molto efficiente (gli anziani debilitati possono contare su una gestione nosocomiale più “dedicata” che non li mettano in condizione di ricovero promiscuo con possibili agenti infettanti).
Quindi è evidente come in Germania il virus abbia finora attaccato la parte più forte e presumibilmente più sana della popolazione; mentre in Italia, colpendo in larga parte i più anziani, tocca soprattutto soggetti con difese immunitarie meno efficienti e già con un tasso di mortalità molto alto.

Nel breve periodo, pertanto, una politica di quarantena seria per gli infetti, il più antico rimedio nelle pandemie, è ancora l’unica strategia efficace perché in grado di ritardare il picco delle infezioni, di alleggerire il sistema sanitario. Questo in attesa, da un lato che i nuovi protocolli di cura e vaccino si sviluppino, e dall’altro che effetti naturali come quelli (ancora non testati) sia dell’immunità di gregge che della stagione calda (i raggi UV dovrebbero agire positivamente sulla inattivazione della capacità di replicazione del virus) blocchino questa avanzata che oggi sembra così inesorabile ma che in un domani molto vicino speriamo di poter considerare come un bruttissimo incubo da cui ci siamo risvegliati molto più consapevoli.

Nel lungo periodo probabilmente solo una profonda riflessione sulla incapacità globale dimostrata in questi mesi nel gestire una emergenza di salute mondiale ci potrà spingere veramente nella direzione di politiche di reale “global health” sempre annunciata ma mai perseguita, politiche che debbano puntare alla difesa dei più fragili passando inevitabilmente anche dalla tutela dell’aria che respiriamo che resta il nostro bene più prezioso.

di Clelia Di Serio

CONTROVIRUS | Cooperare contro le pandemie

di Filippo di Robilant
Vice Presidente Consiglio di Amministrazione Agenzia per i Diritti Fondamentali Unione Europea

L’articolo che segue è stato scritto da Filippo di Robilant, allora membro del Comitato Direttivo dello IAI, e pubblicato su AffarInternazionali, sull’onda della grave epidemia di Ebola scoppiata in diversi paesi dell’Africa occidentale nel 2014. L’autore oggi ci precisa che i concetti espressi circolavano da almeno vent’anni in alcuni settori della comunità scientifica mondiale, che si domandavano come evitare di ripetere gli errori commessi con la pandemia dell’Aids, di cui si continua a morire ancora oggi. L’auspicio era che l’Aids ci aveva reso più vigili rispetto ai virus emergenti. Non era così.
Da allora sono stati fatti piccoli passi avanti ma del tutto insufficienti se si guarda all’effetto devastante che le pandemie hanno sull’umanità. Come ci dicono gli esperti, di fronte all’insorgere di nuovi virus occorre ogni volta trovare l’arma adatta per sconfiggerli quindi l’unica “prevenzione” possibile è rappresentata da un binomio: preparazione e cooperazione. Preparazione significa che le popolazioni devono essere addestrate su come attenersi a codici di comportamento basati sul principio di precauzione; preparazione significa avere servizi sanitari e sociali solidi e sostenibili; preparazione significa incoraggiare per i futuri medici la specializzazione in virologia ed epidemiologia: sono loro i “detective” che scoprono i virus facendoceli conoscere. Cooperazione significa non solo che la ricerca scientifica deve lavorare su piattaforme condivise ma significa soprattutto creare uno strumento transnazionale permanente con poteri vincolanti e una chiara catena di comando in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi epidemia. Con la diffusione del coronavirus si è parlato tanto di consenso nei processi democratici e di reticenza da parte dei governi nell’introdurre misure restrittive impopolari. Per questo è fondamentale evitare risposte ad hoc e avere invece meccanismi ex ante stabiliti in comune.
Per avere contromisure attuate con rapidità, prima che i virus facciano il salto di qualità e diventino fenomeni globali, bisogna affrontare la realtà della riduzione del rischio e restringere il divario tra pandemie e livello e intensità della nostra risposta. Questo valeva più di due decenni fa e vale ancora oggi, mentre subiamo il flagello del Covid-19.

Ebola, una tragedia annunciata, 13 ottobre 2014

L’esperienza ultradecennale della pandemia dell’Aids ci avrebbe dovuto rendere più vigili rispetto ai virus emergenti. Non è stato così. Ancora oggi, governi e istituzioni sanitarie mondiali preferiscono aspettare di essere travolti dalla valanga di pandemie prima di prendere provvedimenti seri.
Finché si continuerà a considerare le emergenze pandemiche solo come problema sanitario, e non come questione da affrontare anche dal punto di vista politico-istituzionale e dello sviluppo umano, la nostra risposta rimarrà inadeguata.

Dall’Aids a Ebola

Sono passati più di vent’anni da quando autorevoli membri della comunità scientifica internazionale esortavano i decisori politici a guardare al di là del fenomeno dell’Aids. Ammonivano che da troppo tempo troppe persone violavano troppi ecosistemi.
Avvertivano, per esempio, degli effetti allarmanti della graduale distruzione della biosfera tropicale: la foresta pluviale, essendo il serbatoio del pianeta più capiente di specie vegetale e animale, lo è anche di varietà di virus.
E quando un ecosistema viene degradato, virus sconosciuti sono sfrattati dai loro ambienti naturali e sottoposti a una pressione selettiva estrema: alcuni reagiscono scomparendo, altri mutando rapidamente e cambiando habitat. Gli scienziati si domandavano se il virus dell’Hiv fosse solo un caso emblematico e non il culmine di un disastro che invece avrebbe potuto prendere il nome di altri virus letali come Ebola, Dengue, Marburg, Junin, Lassa, Machupo, Guanarito, O’nyong’nyong.

Virus che ignorano le frontiere 

Non c’è dubbio che i programmi nazionali contro l’Aids degli inizi degli anni ’90 erano troppo rigidamente concepiti come programmi governativi anziché come frutto degli sforzi congiunti degli organi esecutivi, dei centri di ricerca, delle associazioni e del settore privato.
La sfida posta alla comunità internazionale richiedeva invece una cooperazione coordinata, sostenibile, transnazionale e complementare. Altrimenti detto, il fatto che il virus ignorasse le frontiere rendeva essenziale stabilire una politica comune tra gli stati.
Invece, la visione “globale” della pandemia, paradossalmente, anziché allargarsi, si è ristretta: i paesi donatori hanno dimostrato una crescente predilezione a lavorare indipendentemente e su base bilaterale con i paesi del Terzo mondo, con il risultato che Unaids, l’agenzia Onu che dal 1996 concentra su di sé le attività anti-Aids, non ha sviluppato la necessaria credibilità per assegnare ruoli e creare meccanismi di coordinamento.
L’esperienza accumulata in questi anni dall’agenzia dovrebbe tuttavia essere messa al servizio dell’emergenza Ebola; anzi, c’è da chiedersi se l’urgenza non imponga di estendere il suo mandato a tutti i virus letali. Questa nuova emergenza è infatti un’occasione per creare uno strumento transnazionale permanente, con poteri vincolanti, in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi pandemia.
Con la deflagrazione della bomba Ebola – che il Presidente statunitense Barack Obama ha definito una minaccia alla sicurezza globale – interesse collettivo è quindi evitare gli errori compiuti nel passato all’interno del dispositivo predisposto dall’Onu: disarmonia tra politiche accettate a livello globale e azione a livello nazionale, indicazioni tecniche contraddittorie, diverse interpretazioni dei mandati e delle aree di competenza delle varie organizzazioni, insufficiente coordinamento degli input dati ai singoli paesi, risposte lente all’evoluzione della pandemia.

In Europa, per esempio, non esiste l’equivalente del Centers for Disease Control and Prevention statunitense (Cdc): il European Center for Disease Prevention and Control (Ecdc), creato sull’onda dell’epidemia Sars nel 2004 e di base in Svezia, svolge un ruolo di coordinamento degli esperti sanitari nazionali, ma non ha una sua unità che risponde alle urgenze.

UN Mission for Ebola Emergency Response 

L’istituzione, il 19 settembre scorso, della UN Mission for Ebola Emergency Response (Unmeer), ad Accra, e la nomina di un Inviato speciale delle Nazioni Unite per la lotta al virus, vanno quindi nella buona direzione. Per la prima volta nella sua storia l’Onu crea una Missione per un’emergenza di salute pubblica. Vedremo se seguirà anche un flusso di fondi tale da garantire continuità al suo operato.
Anche la Emergency Response Unit dell’Unione europea, che abitualmente monitora conflitti armati e disastri naturali, ora segue l’andamento dell’epidemia 24 ore su 24. Tutto questo rischia però di non essere sufficiente se gli sforzi non saranno moltiplicati.
Ieri come oggi dobbiamo prendere atto che: a) le risposte alle emergenze vengono effettuate sostanzialmente su basi ad hoc; b) non esiste una procedura ufficiale per determinare quali organizzazioni a livello internazionale devono assumere la responsabilità amministrativa, tecnica e finanziaria, per non parlare di responsabilità politica, e con quale catena di comando; c) manca una valida rete di comunicazione per garantire una risposta operativa efficace e tempestiva da parte di autorità nazionali.
E poi: esistono strategie per scoprire e prevenire epidemie dovute a nuovi virus o alla riapparizione di vecchi? Siamo in grado di inventare efficaci contromisure per circoscrivere epidemie prima che facciano il “salto di qualità” e diventino fenomeno globale? Un quadro giuridico-istituzionale da attuare su scala globale può essere previsto per i virus, che per definizione non conoscono né limiti di tempo né di spazio?

In questi venti anni si è dormito il sonno dei giusti. Si è lavorato più alla “conservazione delle catastrofi” che alla loro prevenzione. Occorre invece lavorare alla riduzione del rischio, introducendo regole comuni anche per aggirare gli effetti frenanti delle tradizioni religiose e culturali che portano i virus a essere accettati come tragica fatalità.
Infine, un appello alle case farmaceutiche: evitiamo milioni di morti come è stato per l’Aids, solo perché chi poteva non aveva interesse e chi non poteva non aveva scelta.

di Filippo di Robilant

CONTROVIRUS | Dal coronavirus un nuovo modello socioeconomico

di Luca Soncini, docente di finanza – Università della Svizzera Italiana

Abbiamo fatto un gran parlare di “Disruption” in questi anni in rapporto alle nuove tecnologie, alla digitalizzazione, all’intelligenza artificiale e agli impatti evidenti sui processi di produzione nelle fabbriche, nei magazzini, negli uffici, nei modelli di erogazione e distribuzione di beni e servizi di ogni genere. Gli effetti “disruptive” si sono fatti sentire pesantemente anche sui rapporti sociali, sull’interazione tra individui e gruppi, ma questa emergenza sanitaria mondiale, questo “cigno nero” chiamato Covid-19 (in realtà previsto da molti infettivologi, specie dopo le epidemie di Ebola e Sars, ma, sappiamo, quanto l’uomo sia irrazionale e sordo) ha forse innescato un’accelerazione della disruption sistemica.

Nel giro di poche settimane individui e soggetti collettivi ci siamo confrontati con cambiamenti radicali nel processo di produzione e di distribuzione, oltre che nell’organizzazione sociale, ma si sta stagliando all’orizzonte un cambiamento generale e globale che potrebbe toccare il modello economico sul quale ci siamo basati negli ultimi decenni e che si è consolidato dopo la crisi innescata dallo scoppio della bolla del credito nel 2007. Se ciò avvenisse la rottura potrebbe anche intaccare le fondamenta del sistema capitalistico come lo conosciamo nei nostri paesi, andando a riscrivere i rapporti tra soggetti collettivi, ovvero tra Stato e organizzazioni sovranazionali, imprese, categorie o classi nella definizione marxiana, gruppi di cittadini o utenti, fasce di età.

Il prezzo del petrolio inferiore a 30$ al barile per decenni (salvo brevi parentesi), fino all’inizio degli anni Duemila, unito a un costo del denaro in tendenziale ribasso anche per decenni, con un inabissamento negli ultimi 10 anni, hanno permesso la formazione dell’attuale modello globalizzato. La dislocazione delle produzioni e dell’erogazione di servizi in tutti i paesi del mondo non sarebbe avvenuta se non avesse potuto contare sul basso costo delle materie prime fondamentali al trasporto (il petrolio) e al finanziamento (il costo del denaro). Il risultato è un modello organizzativo e di sviluppo frutto di una accelerazione incredibile, sicuramente non ponderata da una comunità “pensante” e “pianificante”, con l’eccezione forse della Cina che si è potuta permettere, grazie al proprio sistema centralizzato capital-comunista, di giocare il doppio ruolo di soggetto utilizzato e utilizzatore di quanto stava avvenendo a livello di modello globale.

I cambiamenti complessi, ma radicali, che intravvediamo (blocco delle attività, “social distancing” e lavoro/interazione in remoto, commercio fermo, lavoro da casa, socializzazione delle perdite, ecc.) stanno trovando terreno fertile in una situazione in cui le politiche post crisi 2008 si sono focalizzate fondamentalmente sulla finanza, lasciando “correre” l’evoluzione della produzione e della distribuzione, alimentata e “diretta” dalla disruption tecnologica. Stati e organizzazioni sovranazionali (G7, G20, Banche Centrali, OCSE, UE, ecc) si sono fondamentalmente concentrati su politiche monetarie (liquidità in abbondanza, titoli di Stato, tassi) e di bilancio pubblico, con qualche incursione su territori classici del Welfare (pensioni, sistema sanitario), ma non hanno saputo o voluto tracciare una direzione riformistica o di cambiamento radicale del modello di sviluppo. E ciò malgrado le evidenti contraddizioni che via via emergevano dalla società, circa le disuguaglianze nella distribuzioni dei redditi generati e, soprattutto, dello stock di ricchezza, e gli impatti ambientali dello sviluppo spinto dal costo basso delle materie prime.

Sembra prendere piede la consapevolezza che, oltre alla necessità di “commutare” da politiche monetarie a politiche fiscali vere, gli effetti di Covid-19 spingono per immediate politiche di sostegno verso i settori della società che risultano colpiti, cioè tutti: produttori, distributori, stipendiati, manager, azionisti, funzionari pubblici, politici. Mai come in queste settimane assistiamo, in un crescendo che segue la diffusione del virus, anche a slanci unitari, solidali di interventi pubblici impensabili fino a poche settimane fa e che potrebbero avere effetti “disruptive” sull’attuale modello organizzativo. Forse sarà la volta buona per ricostruire, sulle macerie di un evento micidiale per l’economia, la sua organizzazione sociale, produttiva e distributiva, un nuovo modello, migliore, più solidale ed equilibrato, che faccia tesoro del meglio delle esperienze capitalistiche, socialdemocratiche e miste, ma anche più sicuro e pronto a reggere per il prossimo ciclo storico del neo Homo Sapiens. L’economia capitalistica e finanziaria si basa sul concetto di fiducia: fiducia nella moneta, nel contratto, nel sistema e, soprattutto, in un futuro migliore. Lo shock ci aiuterà forse a rilanciare la fiducia, ridefinendo le aspettative da soddisfare per realizzare la nostra felicità e il bene comune.

di Luca Soncini

CONTROVIRUS | La società in gioco

di Viviana Kasam
Presidente di BrainCircle Italia

Una bella metafora per i Coronavirus è quella di uno sciame di insetti che vola nell’aria alla ricerca di qualcuno da pungere, per alimentarsi e sopravvivere. I virus che non trovano nessuna cellula su cui attecchire, muoiono. Insomma, è una guerra per la sopravvivenza, tra i virus e noi.  Una guerra che dobbiamo vincere. E per ora l’unica strategia a nostra disposizione è quella di chiuderci in trincea, sperando che i virus si estinguano per fame, mentre il nostro Stato Maggiore affina le armi: test diagnostici, terapie, vaccini, controlli epidemiologici, strutture d’emergenza.

Sulla guerra tra specie per la sopravvivenza, il testo più illuminante, almeno tra quelli che ho letto, è “Il gene egoista” (Mondadori) di Richard Dawkin), eminente biologo e straordinario scrittore. Secondo Dawkin, noi saremmo una macchina sofisticata che i nostri geni hanno costruito per sopravvivere individualmente ma anche come specie, riproducendoci  e sconfiggendo le altre specie. Ma siamo una macchina fallibile e non è escluso che ci siano altri organismi più adatti di noi a propagarsi, nutrendosi di noi e distruggendoci. E’ una teoria che analizza l’evoluzione dal punto di vista del gene anziché di quello dell’individuo, già esposta da George Christopher Williams nel suo saggio “Adaptation and Natural Selection”. Ovviamente, la guerra di sopravvivenza non implica la consapevolezza e la volontà dei geni, ma solo la programmazione insita in ogni essere vivente (piante comprese) a replicarsi con successo. Persino l’altruismo e la socializzazione sarebbero dei comportamenti utili a farci sopravvivere e conseguire il predominio in natura.

E se il coronavirus fosse la “macchina” di un gene più brillante di noi?

E’ ottimista lo storico e filosofo israeliano Yuval Harari, che insegna alla Hebrew Universituy of Jerusalem ed è l’autore del best seller “Sapiens. Da animali a Dei: breve storia dell’umanità” (Bompiani). “Il virus –ha dichiarato in una intervista alla BBC- lo sconfiggeremo, perché siamo molto più attrezzati che nel passato. In due settimane siamo stati in grado di identificarlo e sequenziarne l’intero genoma, sviluppando test diagnostici”. Secondo Harari riusciremo a mettere a punto, anche se non in tempi brevissimi,  vaccini e farmaci, e soprattutto un efficace controllo epidemiologico per proteggerci in futuro da attacchi di altri virus sconosciuti o mutati. Ma qual è il costo sociale e individuale di questi controlli tecnologici, che già in parte sono disponibili? ”Abbiamo la possibilità di misurare la febbre a distanza, monitorare gli spostamenti degli individui attraverso i cellulari, fare misurazioni biometriche” spiega Harari. “E questo evidentemente crea un conflitto tra la nostra privacy e la nostra sicurezza. Quanto siamo disponibili a sacrificare la privacy per la sicurezza? E come evitare che la sicurezza sfoci in regimi totalitari?” 

Sono domande che molti pensatori si stanno ponendo, ma purtroppo in questo momento, a rischio di una pandemia che potrebbe stroncare l’umanità, la privacy è un lusso che non ci possiamo concedere. L’importante sarebbe di garantire che le misure di sicurezza siano temporanee, ma il Grande Fratello è un mostro tentacolare che si sviluppa al di là delle nostre precauzioni, e il cui controllo diventa utopistico.

Ma oltre alla debolezza della nostra macchina fisica, e a quella delle nostre democrazie, il Covid 19 mette in luce un’altra debolezza del nostro sistema. Ovvero la certezza che la vecchiaia si può sconfiggere e l’eternità è a portata di mano (se non per tutti, almeno per i supermiliardari). La nostra società si basa sull’assunto erroneo che la morte è una sconfitta, e non il termine naturale del nostro percorso terreno; che la vecchiaia è un accidente, e che, grazie a  farmaci, a integrazioni  meccaniche, a interfacce con i computer, a tecnologie avveniristiche, potremo rimanere giovani, efficienti, eterni, in un futuro dietro l’angolo. Un altro libro magistrale (confinati in casa abbiamo più tempo per leggere) è “Essere una macchina” di Mark O’Connell (Adelphi) in cui l’autore, un brillante giornalista irlandese, esplora il mondo dell’eccellenza tecnologica per scoprire i segreti dell’eterna giovinezza: macchine al nitrogeno liquido per surgelare corpi (o per i più poveri solo le teste) in attesa di scoprire l’elisir dell’eterna giovinezza. Chips da inserire nel corpo per diventare computerizzati. Sistemi di download del cervello per replicare su silicio la nostra personalità e intelligenza e trasferirla su un altro supporto, organico o inorganico. Viaggi nello spazio per ringiovanire. E’ il Transumanesimo, ragazzi. Sembrano favole di fantascienza, e invece in questo settore stanno investendo i grandi miliardari di Silicon Valley, come Steve Wozniak, Dmitry Itskov, Elon Musk, o Peter Thiel, il fondatore di PayPal. Basti pensare che Raymond Kurzweil, il guru che ha lanciato il termine Singolarità Tecnologica come completa osmosi tra uomo e macchina, ritiene di poter vivere per sempre (intanto ingurgita 150 pillole al giorno).

Non credo negli avvertimenti soprannaturali. Però è evidente che la pandemia come un hacker sta scardinando le nostre certezze. Non solo quella di essere potenzialmente eterni, ma anche quella di poter disporre del mondo, della natura, delle risorse, a nostro piacimento. La speranza è che, se riusciremo a vincere la guerra contro i virus, ne usciremo più consapevoli dei nostri limiti, più rispettosi verso il Pianeta, più capaci di sfuggire all’accelerazione esponenziale delle nostre vite e dei nostri consumi, per ritrovare un migliore equilibrio con noi stessi, con chi ci sta intorno e con la Natura.

di Viviana Kasam

CONTROVIRUS | Il punto su prevenzione e terapia

Intervista a Enzo Soresi, Primario emerito di  Pneumologia Ospedale Ca’Granda – Niguarda

Il professor Soresi ha una lunga esperienza sul campo. Già nel 1968  era assistente in Anatomia patologica presso l’Ospedale Ca’ Granda di Niguarda quando scoppiò l’influenza di HONG KONG che  fece circa 800.000 morti nel mondo e più di 20.000 in Italia: il carico di autopsie poteva arrivare fino a 20 al giorno…

La prevalenza dei decessi era dovuta a polmoniti batteriche che insorgevano a causa della severa immunodepressione che il virus di Hong Kong induceva. In prevalenza si trattava di pazienti anziani (nel ’68 si era anziani a 60 anni), affetti da broncopatie ostruttive  croniche da fumo, diabete, malattie cardiovascolari , insufficienza renale ecc . In quegli anni i posti letto a Niguarda erano di circa 2.500  e tutti i pazienti che lo necessitavano venivano regolarmente ricoverati. Le morti così elevate erano legate in parte agli inadeguati trattamenti antibiotici ed in parte alle condizioni critiche dei pazienti ricoverati.  Pur essendo giovane non ricordo un particolare impatto sociale per quell’epidemia e tanto meno lamentele contro organizzazione sanitaria e carenze assistenziali , la mia sensazione è che in quegli anni la morte venisse accettata con maggiore rassegnazione. 

Perché con il COVID 19 è tutto cosi diverso?

Innanzitutto, la pandemia in corso indotta da questo virus ha caratteristiche molto particolari che si possono così riassumere:

a ) elevata contagiosità al punto che si parla in Inghilterra di favorire l’immunità di gregge sacrificando una parte della popolazione. E’ il principio secondo cui la catena dell’infezione può essere interrotta quando un adeguato numero di persone avrà contratto il virus.  Nel caso del coronavirus si ipotizza il 66%della popolazione. Questa scelta potrebbe essere rischiosa in quanto non si sa ancora quanto i contagiati sviluppino una difesa specifica contro il virus cioè degli anticorpi che lo difendano da un secondo potenziale contagio e quanto il virus stesso tenda a modificarsi.  Tant’è vero che l’Inghilterra ha fatto marcia indietro.

b ) insorgenza di polmoniti interstiziali ossia complicanze polmonari sostenute da una liberazione di citochine flogogene (alcuni tipi di interleuchine ed in particolare la IL6 ) nell’interstizio polmonare che il coronavirus induce. Quindi non una polmonite batterica da immunodepressione come nel 1968, ma una polmonite interstiziale che raramente viene indotta dai virus influenzali stagionali e che invece in questo caso presenta una relativa alta incidenza.  Questo tipo di polmonite, che non risponde a terapie antibiotiche di nessun tipo, porta ad una progressiva insufficienza respiratoria che, se non supportata da adeguata ventilazione polmonare in area di rianimazione, ha un esito esiziale… 

c) a questo va sommata l’inadeguatezza delle strutture sanitarie.  Il numero insufficiente dei letti nelle unità intensive respiratorie crea l’impressione che molte persone che avrebbero potuto essere salvate muoiano perché non vengono curate adeguatamente. Ma è vero?  Dal Corriere del 15 marzo si riporta che su 156.000 casi positivi nel mondo ci sono a tutt’oggi 5.614 morti. Molti erano affetti da patologie multiple che non hanno consentito il recupero del paziente. Quanti di questi potevano essere salvati? Come pneumologo, in 50 anni di professione, ho visto morire la maggior parte dei pazienti che avevano sviluppato una l polmonite interstiziale sostenuta da un virus influenzale nonostante il tempestivo ricovero in unità intensiva, e non si trattava in tutti i casi di pazienti anziani o defedati: la polmonite interstiziale di natura virale non è semplice da guarire…. Ne deduco che, se i letti della rianimazione fossero stati adeguati, la morte, comunque ineluttabile, sarebbe stata accettata con più rassegnazione, così come avvenne nel ’68. Oggi al dolore si somma la rabbia…

Insomma, la “colpa” non è solo della carenza di posti in rianimazione?

Purtroppo l’Italia, come peraltro la maggior parte dei Paesi, non ha strutture adeguate a pandemie di questo tipo. Ricordo che negli anni ’90 come primario di pneumologia, sempre a Niguarda, feci richiesta di una unità sub intensiva respiratoria che avrebbe dovuto e potuto essere il futuro della pneumologia italiana, ma la mia richiesta restò inevasa come avvenne per altre strutture analoghe  sul territorio nazionale. 

Perché sono colpiti più gli uomini che le donna?

Da poco tempo è stato possibile capire che il virus si lega a dei recettori delle cellule alveolari polmonare noti come ACE2: questo porta come conseguenza ad una distruzione dei sottili setti alveolari con liberazione di citochine infiammatorie. Tali recettori sono sovraespressi negli uomini e meno nelle donne e così spiega come il rapporto di malati fra uomini e donne sia di 7 a 3. Sono inoltre maggiormente espressi nella razza caucasica rispetto all’asiatica. 

Oggi sempre di più si parla delle infiammazioni come premessa di tutte le malattieanche quelle neurodegenerative.

E’ assolutamente vero ed è un tema che affronto nel mio ultimo libro, scritto con il co-blogger Pierangelo Garzia  “Come ringiovanire invecchiando“. Una condizione infiammatoria, che si può valutare  con un esame del sangue, espone maggiormente al rischio di   polmonite interstizialePer questo è fondamentale cercare di prevenire le infiammazioni.

C’è qualche comportamento che possiamo mettere in atto?

  • In primis alimentazione povera di carboidrati, per assurdo la dieta chetogenica, tanto demonizzata, sta diventando la dieta di maggiore prevenzione  contro le malattie. Personalmente da circa 8 anni ho seguito una alimentazione riducendo i carboidrati al 10% ed ora mi ritrovo ad 81 anni in perfette condizioni fisiche e mentali, semplicemente perché ho ridotto l’infiammazione nel mio organismo. 
  • E’ consigliabile anche  un digiuno intermittente cioè  fare passare da 14 a 16 ore fra un pasto e l’altro almeno un paio di volte alla settimana:  questo ridà vita al sistema immunitario ed elimina i mitocondri danneggiati.
  • Indispensabile l’attività fisica, ma moderata: se in questo momento non potete o non  volete uscire organizzatevi  in casa, oppure fate 2 piani di scale (in salita)  4 volte al giorno -equivalgono a circa 8.000 passi. L’attività fisica rende felici i mitocondri, i batteri che forniscono ossigeno ed energia al nostro organismo ed ai quali ho dedicato il mio libro  “Mitocondrio mon amour“ (UTET )
  • Utile assumere  spremute di arance e kiwi  ricchi di vitamina C ed integrare con vit. D. Bene anche i probiotici che nutrono il microbiota intestinale, l’insieme dei batteri che si costruisce nei primi 6 anni di vita e condiziona la nostra salute. Oggi se ne parla sempre di più, per il suo ruolo in molte malattie, dalla psoriasi all’autismo.
  • Ed infine un suggerimento importante, se avete febbre di natura virale che sia o no il Covid 19, non assumete paracetamolo ma lasciatela fluire nel vostro corpo. La febbre è correlata alla attività dei linfociti che stanno “blastizzando” cioè producono anticorpi -anche se non specifici, possono far fuori il virus. Idratatevi molto ed aiutatevi con panni bagnati sulla fronte, assumete paracetamolo solo quando il malessere è eccessivo. In altre parole la febbre è la risposta terapeutica del vostro sistema immunitario all’attacco virale e va interpretata in modo positivo

L’inquinamento gioca  qualche ruolo nella diffusione di questo virus ?

Roberto Boffi, amico e collega dell’Istituto dei Tumori che da anni lotta contro vari tipi di inquinamento oltre che quello da fumo di sigarette mi ha spiegato che, secondo i risultati dei campionamenti effettuati a Wuhan da colleghi cinesi ed americani , il virus si  aggrega  ai PM, i particolati atmosferici, e più ce ne sono più diventano carriers di SARS – CoV-2 . In teoria, se non ci fosse inquinamento dovrebbe diminuire sicuramente  pure la trasmissione. Va inoltre tenuto presente, aggiungo io,  che l’inquinamento induce infiammazione cronica  nelle mucose delle vie respiratorie e rappresenta quindi un fattore di rischio aumentato per le complicanze polmonari  indotte dal virus. 

Si comincia a sentir parlare di terapie efficaci. Si intravvede una luce in fondo al tunnel?

In un articolo del 18/03/2020 in esclusiva al giornale Les Echos, il virologo francese  Didier Raoult, direttore dell’Istituto Mediterraneo per le infezioni di Marsiglia, i cui lavori sono fra i più pubblicati al mondo, ha affermato che Clorochina anti-malaria associata ad Azitromicina antibiotico avrebbe guarito in 6 giorni il 90% dei pazienti positivi, tre  quarti dei quali non sono risultati più portatori del virus.

Perché questo cocktail funziona? 

La clorochina avrebbe due effetti per accelerare l’eliminazione del virus, spiega Raoult in esclusiva al giornale Les Echos: modificherebbe prima l’ambiente acido del vacuolo della cellula, un piccolo sacchetto di liquidi protetto dalla membrana che serve da tana per i virus. Aumentando il suo pH, l’equilibrato ecosistema di questo ‘rifugio’ del virus viene ad essere ‘scombussolato’ e viene così impedita l’azione degli enzimi coinvolti nel meccanismo cellulare utilizzato dal virus per replicarsi. L’Azitromicina è un antibiotico con caratteristiche antinfiammatorie. Con questa combinazione quindi si otterrebbe  da una parte la riduzione delle particelle virali ottenute grazie alla clorochina e dall’altra la riduzione del processo infiammatorio a livello polmonare indotto dal virus attraverso l’azitromicina. Mi riservo comunque di leggere l’articolo scientifico originale per rivalutare i significato di questo protocollo terapeutico. 

I cinesi hanno sperimentato con successo un tipo di terapia completamente diverso…

Sì, loro hanno utilizzato un anticorpo monoclonale da anni somministrato sottocute  ai pazienti affetti da artrite reumatoide,  malattia autoimmune scatenata dalla interleuchina 6 (IL6) ,  una delle citochine flogogene più aggressive. Poiché nei pazienti che finiscono in rianimazione è proprio questa  IL6 che porta alla insufficienza  respiratoria,  un uso tempestivo di  questo anticorpo, noto con il nome di TOCILIZUMAB  , potrebbe essere di possibile  aiuto . Le sperimentazioni sono in corso e sembrano promettere bene .  La casa farmaceutica  ROCHE si è resa disponibile a fornire il farmaco gratuitamente . Se questo trattamento risulterà efficace come è già  avvenuto , in qualche raro caso , in Cina ed a Napoli ,  potrà  in prospettiva ridurre  il numero dei morti. E’ di pochi giorni fa la notizia che partirà un trial clinico su 330 pazienti, negli ospedali milanesi,  per valutare l’efficacia di questo trattamento.  

Trattandosi di due farmaci già in uso, uno contro la malaria, l’altro contro l’artrite reumatoide, associati a antibiotici, si può sperare che la terapia non sia troppo lontana?

A mio avviso entrambe queste terapie, peraltro prive di controindicazioni, dovrebbero essere attuate con tempestività, in particolare se lo studio pilota del virologo  francese verrà confermato, con tutta probabilità si eviterebbe di arrivare alla polmonite interstiziale con la necessità all‘uso dell’anticorpo monoclonale. 

Per inciso ho prescritto proprio ora telefonicamente, il protocollo di Didier Raoult ad un paziente di 63 anni che da sei giorni ha febbre e tosse ma non è stato ricoverato in quanto non ha difficoltà respiratorie e la saturazione di ossigeno nel sangue era del 100% .. vi dirò fra qualche giorno come è’ andata….

E per un vaccino, quanto tempo ci vorrà?

Il tempo minimo perché il vaccino arrivi per uso clinico sarà di un anno e quindi speriamo per l’anno prossimo di poter contare a dispetto dei no-vax su due vaccini stagionali fondamentali per la tutela della nostra salute l‘antinfluenzale e l’anti coronavirus.

Il prof. Soresi può essere seguito sul suo blog: www.bioneuroblog.wolrdpress.com

CONTROVIRUS | Il Corona ci insegna

di Rosalba Giugni, presidente di Marevivo

“Gira il mondo gira nello spazio senza fine” le parole di una antica canzone suscitavano l’immagine del nostro Pianeta azzurro che navigava nell’immensità scura dove l’acqua faceva da padrona nel Cosmo e dalla quale era scaturita la vita sulla Terra: MadreMare.

Oggi ci troviamo costretti a cambiare stile di vita, ad abbandonare la frenesia dei nostri spostamenti e a ritrovare l’intimità e il silenzio della nostra casa. Com’è potuto succedere?

Un organismo infinitesimale è traslocato probabilmente da un pipistrello e ha scoperto che il corpo dell’uomo era di suo gusto… non ha incontrato nemici e si è installato alla grande, passando da essere umano all’altro senza fare distinzione di colore o di status. Un virus sconosciuto che in pochi giorni è riuscito a mettere in ginocchio un sistema sofisticato e globale, tanto da farci sentire assolutamente fragili, dissipando in un battibaleno le nostre certezze e le nostre traballanti economie.

Tutto il disegno complesso messo in atto da stati, istituzioni, borse, banche, assicurazioni, comunicazioni, aziende, trasporti si è liquefatto come neve al sole. E noi impotenti cerchiamo una guida da scienziati e ricercatori con l’intento di contribuire ad arrestare con i nostri comportamenti l’avanzare del minuscolo organismo ormai dilagante ovunque nel Pianeta.

Ma vogliamo decodificare il segnale che ci arriva forte e chiaro dalla Natura?

Con passo pesante siamo intervenuti nei sistemi naturali distruggendo le strutture (la biodiversità) e le funzioni (gli ecosistemi) che si sono evolute in milioni di anni ed è sempre più lapalissiano che la tutela e la salvaguardia della nostra salute non può prescindere da quella del Pianeta.

La medicina è indispensabile per curare i sintomi del degrado ambientale (le malattie) ma altrettanto indispensabile è la cura per la casa comune, l’ecologia. Non è possibile essere sani in un ambiente malato.

Mentre il mondo intero si è mobilitato per l’emergenza coronavirus, non ci sono azioni concrete per affrontare i cambiamenti climatici denunciati da anni dal mondo scientifico e da noi ambientalisti. Sembra che il pericolo sia ancora lontano e che non ci sia un’emergenza effettiva da affrontare subito.

Mentre il mondo intero si è mobilitato per l’emergenza coronavirus, gli inquinanti, dai pesticidi alla plasticacontinuano a essere trasportati dai fiumi al mare entrando nelle reti alimentari. Quanti inquinanti possiamo sopportare? Cosa succederà? Quando ce ne accorgeremo sarà tardi! Non sprechiamo questo momento storico che ci fa riflettere per cambiare rotta.

Marevivo chiede da anni una legge Salva Mare ancora ferma al Senato e intanto non si fa niente!

Cosa ci ha insegnato il tempo del coronavirus?

La comunicazione con i social, un sistema che creava rapporti effimeri tra le persone, si rivela uno strumento straordinario per non farci sentire abbandonati. Abbiamo condiviso paure, esperienze, messaggi e solidarietà arrivati da tutti in maniera democratica, anche se chiusi nella nostra casa ci sentiamo parte dell’intera umanità.

E questo non dovrebbe spingerci oltre? Dobbiamo arrestare i cambiamenti climatici, producendo il nostro fabbisogno con energie rinnovabili e pulite catturandole dai nostri tetti e come condividiamo le informazioni in rete, mettiamo il surplus di questa energia a disposizione degli altri.

Sul tema dei beni di consumo dovremmo fare i nostri acquisti a chilometro zero innestando un’economia circolare della quale esserne consapevoli e quindi potendola capire e influenzare. Utopia?

Avremmo mai immaginato di non poter più prendere un aereo o un treno perché bloccati da un organismo minuscolo come il coronavirus? Se costretti riusciamo a cambiare i nostri comportamenti. E il pericolo di estinzione della nostra specie sul Pianeta Terra non è un buon motivo per farlo?

Il degrado degli ecosistemi non ci tocca in prima persona, non lo percepiamo come un pericolo immediato, un’emergenza da affrontare subito. Anche e se le immagini dei satelliti sono estremamente esplicative, ci mostrano l’aria prima e dopo il blocco delle attività come nelle megalopoli cinesi o come nel nord Italia motore industriale della Nazione.

I cinesi sono sorpresi di vedere il cielo blu e i veneziani costatano come l’acqua dei canali sia diventata trasparente in pochi giorni e inoltre brulichi di pesci. Incredibile come, solo in pochi giorni, ci sia stato un cambiamento così radicale, privato delle emissioni di Co2 sollevato dal peso delle nostre attività. Allora viene da pensare a quante persone muoiono per mali legati all’inquinamento, le stime sono di circa 80.000 individui all’anno in Italia, la pandemia che stiamo vivendo seppur gravissima, impallidisce di fronte a questi numeri.

Allora cosa ci insegna questo tempo del coronavirus? Se l’ambiente si riprende rapidamente appena le nostre attività usuali sono sospese, significa che siamo anche noi un patogeno per il resto della natura, proprio come il virus lo è per noi. Il vaccino per il pianeta è la neutralizzazione dei nostri impatti.

Riscopriamo la bellezza della nostra umanità con una vita meno frenetica, cerchiamo di esercitare, dove possibile, il nostro lavoro in remoto usando le tecnologie che già abbiamo e investiamo per la ricerca di nuovi metodi che ci consentano di sviluppare la nostra creatività e la nostra economia in maniera sostenibile per il pianeta e per tutte le creature che lo abitano, ricordiamoci che sono loro a rendere possibile la presenza dell’uomo sulla Terra e naturalmente cominciando da Madre Mare!

di Rosalba Giugni

CONTROVIRUS | Essere responsabili

di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

A gennaio pensavamo che il Covid-19 fosse qualcosa di lontano, limitato alla sola Cina. Osservavamo la città di Wuhan e le altre province cinesi chiudersi in rigide quarantene e ci illudevamo che il virus, come altri prima di lui, non avrebbe raggiunto l’Europa, né modificato la nostra quotidianità. Ci sbagliavamo, e ce ne siamo accorti improvvisamente.

Forse può sembrare che la memoria dei Giusti non c’entri affatto in questa contingenza – che dovrebbe concentrarsi prima di tutto sulle disposizioni sanitarie del governo, delle amministrazioni e sul lavoro indefesso dei medici negli ospedali.

In realtà le vicende degli uomini Giusti che hanno salvato delle vite durante i genocidi e le peggiori crisi umanitarie mettono in risalto non una vocazione alla santità di alcuni uomini in particolare, ma il tema della scelta alla portata di tutti in qualsiasi situazione, in quanto dimostrano che esiste sempre la possibilità di usare il proprio spazio personale per fare del bene. È stato questo l’insegnamento fondamentale dei Giusti che con Gariwo fin dagli anni ’90 abbiamo cercato di fare conoscere.

Oggi possiamo vedere come la scelta nei confronti dell’altro è diventata la sfida per ognuno di noi. Seguire con cura le misure igieniche e accettare il sacrificio di una limitazione dei nostri movimenti significa non soltanto avere una cura di sé, ma diventare improvvisamente responsabili verso gli altri.

Ognuno di noi ha la possibilità, nel suo piccolo, di diventare un argine contro la malattia, accettando con serenità le disposizioni e dicendo la verità qualora avesse un sospetto sulla propria condizione. La salute degli anziani, i più esposti all’epidemia, dipende anche dalla nostra attenzione.
Non c’è tuttavia solo l’igiene del corpo, ma anche la cura della nostra anima, come sosteneva Etty Hillesum quando, prima di venire deportata, sosteneva che ognuno era chiamato a soffocare dentro di sé l’odio e la cultura del nemico per non soccombere di fronte a ogni forma di disumanizzazione.

In questo caso la paura del coronavirus può generare mostri e intolleranze. Lo abbiamo visto quando prima abbiamo guardato con sospetto tutti i cinesi per strada e poi ci siamo accorti che in Italia c’era chi guardava con sospetto i milanesi e nel mondo improvvisamente “i cinesi” siamo diventati tutti noi come italiani.
Ci siamo trovati di fronte alla scelta tra chiuderci nel nostro ego e dare la colpa sempre agli altri, oppure aprirci alla solidarietà e diventare messaggeri di speranza di fronte a chi si fa prendere dalla paura.

Il Coronavirus ci ha riportato improvvisamente alla consapevolezza della fragilità umana e ci ha fatto comprendere che non solo a casa nostra, ma in un mondo globalizzato, le contrapposizioni non portano da nessuna parte, ma è il gusto dell’umanità la terapia contro ogni forma di male.
È stato questo il punto di partenza che ha spinto gli uomini giusti a rischiare e ad agire in situazioni impossibili – dalle guerre, ai genocidi a tutte le crisi umanitarie. Essi hanno agito nell’ignoto, non immaginando quale potesse essere il risultato dei loro sforzi in situazioni dove sembrava impossibile la possibilità di un futuro diverso. I Giusti avevano compreso come l’esercizio del mestiere di uomo di cui parlava Marco Aurelio dovesse diventare la priorità.

Guardando oggi ai Giusti, in questa ricorrenza, non troveremo la soluzione magica per il nostro agire, ma ci potremmo ispirare per affrontare la crisi attuale. Se useremo la nostra immaginazione ci accorgeremo che tante storie esemplari del passato possono rivivere in atti di coraggio del nostro tempo. Mi viene in mente la vicenda del chimico russo Valerij Legasov, che sfidò il potere sovietico per prendere le prime misure dopo l’incidente nucleare di Chernobyl e fu emarginato per avere raccontato al mondo le responsabilità del regime. Oggi abbiamo visto una storia simile in Cina, dove il medico Li Wenliang, all’inizio di dicembre a Wuhan, osservando dei pazienti colpiti da polmonite si era accorto che c’era un virus sconosciuto. Egli fu il primo a parlare del pericolo sui social, andando incontro alla censura del regime che preferì per settimane nascondere il pericolo, mettendo così a rischio il mondo intero.

La narrazione di esempi positivi è un grande messaggio di ottimismo, perché mette in evidenza la possibilità del singolo individuo, che indipendentemente dal contesto può vincere la sua battaglia. Chi ha salvato un ebreo, un armeno, un profugo nel Mediterraneo non ha cambiato il mondo, ma nel suo ambito di libertà ha mostrato che gli eventi potevano andare in un’altra direzione. È un messaggero che rompe tutti gli schemi, perché mostra che nella storia non esiste mai un determinismo, ma tutto nasce sempre da una scelta collettiva o personale.

Abituare le società a raccontare i Giusti del mondo non è solo una modalità che insegna a sentirsi cittadini del mondo e a rompere le barriere ma, come scriveva il filosofo francese Pierre Hadot, è una forma di comunicazione indiretta che stimola le coscienze. La predica, scriveva, è un’imposizione molto spesso controproducente, mentre l’esempio costringe a pensare e a fare dei paragoni con la propria esistenza.

di Gabriele Nissim